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Calvino e Pasolini. Una polemica letteraria.



Pier Paolo Pasolini (1963) © Gideon Bachmann/ Archivio Cinemazero Images/ Riproduzioneriservata

Italo Calvino© Archivio Storico Istituto Luce Cinecittà srl1/Riproduzione riservata.

Il 23 dicembre 1973, meno di un mese dopo il varo delle politiche di austerità da parte del governo Rumor, «L’Unità» organizza una tavola rotonda alla quale partecipano Giorgio Napolitano, Luciano Lama, Paolo Rossi e Giorgio Ruffolo, per discutere di “sviluppo economico” e “modelli di vita”. Da parte di Ruffolo giungono critiche aspre contro “possibili interpretazioni regressive che si tende ad avallare quando si parla di un nuovo modo di sviluppo”: interpretazioni “mistico-reazionarie, che ad ogni crisi dell’umanità ripropongono lo spauracchio di un’apocalisse”. Sulle stesse posizioni si colloca Rossi, che dapprima condanna tutti quegli “ingredienti della rivolta neoromantica contro la scienza” che stanno “riemergendo nella cultura italiana anche in quest’occasione di crisi”, e poi ribadisce la propria contrarietà a tutta “una serie di predichesul ritorno alla natura incontaminata, sull’opportunità di un ridimensionamento radicale della tecnologia” [1].

Nessuno lo nomina, ma è chiaro che uno dei principali destinatari di quelle critiche è Pier Paolo Pasolini. Il quale, sentendosi evidentemente chiamato in causa, invia a «Paese Sera» cinque poesie [2], il cui tema è il rimpianto per la povera, ma dignitosa, condizione dell’Italia rurale, ormai distrutta dagli abomini dello sviluppo. Il 5 gennaio del 1974 il quotidiano pubblica, dopo alcuni indugi e qualche iniziale riluttanza, i cinque componimenti, accompagnati da una lunga nota redazionale anonima – in realtà scritta da Gianni Rodari – che sottolinea la validità artistica di quei testi in quanto, appunto, poesie, ma la sostanziale insostenibilità delle tesi politiche che vi sono contenute [3]. La stroncatura più radicale a quei testi arriva il 13 gennaio da Valerio Riva, che sulle colonne de «L’Espresso» prima li definisce “fregnacce di un poeta”, e poi liquida l’intera ideologia pasoliniana come una serie di “farneticazioni di un’Arcadia che non è mai esistita sul serio”[4].

Sulla stessa rivista, pochi mesi dopo, è Lucio Coletti, nel corso della tavola rotonda organizzata da «L’Espresso» il 23 giugno, È nato un bimbo: c’è un fascista in più [5], a muovere accuse analoghe a Pasolini, affermando che quest’ultimo “ha solo nostalgia dell’Italia rustica e paesana”, cioè di “un mito letterario che non serve a niente”. È un rimpianto di una “bella epoque” che non è “mai esistita” [6].

Che è poi quello che a Pasolini rinfaccia Italo Calvino, in un’intervista concessa a «Il Messaggero» il 18 giugno 1974, nell’ambito del dibattito sulla vittoria del “no” al referendum e sulla presunta mutazione antropologica degli Italiani.

Non condivido il rimpianto di Pasolini per la sua Italietta contadina […]. Questa critica del presente che si volta indietro non porta a niente […]. Quei valori dell’Italietta contadina e paleocapitalistica comportavano aspetti detestabili per noi che la vivevamo in condizioni in qualche modo privilegiate; figuriamoci cos’erano per milioni di persone che erano contadini davvero e ne portavano tutto il peso. È strano dire queste cose in polemica con Pasolini, che le sa benissimo, ma lui […] ha finito per idealizzare un’immagine della nostra società che, se possiamo rallegrarci di qualche cosa, è di aver contribuito poco o tanto a farla scomparire [7].

E la mitizzazione pasoliniana delle masse proletarie dell’Italia rurale è il bersaglio delle critiche anche di Maurizio Ferrara, su «L’Unità» del 12 giugno 1974:

Forse Pasolini, queste masse le amava di più come erano trent’anni fa, quando in una loro intatta purezza (tutta da dimostrare) contavano indubbiamente meno della metà di quanto contano oggi, per inquinate dai «caroselli» che siano? [8]

Quanto Pasolini scrive sulla mutazione antropologica degli Italiani costituisce, a giudizio di Ferrara, “un anelito che richiama le voglie della migliore intellettualità reazionaria fissata in un rimpianto oscuro per l’età dell’oro perduta”, e nelle sue analisi si riscontra “una carica evidente di estetismo insoddisfatto, di un manicheismo intellettualistico”, che non tiene conto del fatto che “qualsiasi età dell’oro – se mai ne è esistita una – è improponibile. E che, quindi, l’epoca migliore per fare politica non era quella, sognata, dei conti che tornavano sempre ma, piuttosto, quella in cui è dato vivere e nella quale, sfumati gli schemi delle mitologie […] la cosa fondamentale è vivere e lottare con gli occhi aperti”. Cosa, però, che Pasolini non può fare, dal momento che “non si vive ad occhi aperti guardandosi indietro”: ciò costituisce “un gesto allarmante, di totale deprezzamento della dimensione politica, a vantaggio di una sorta di stato di necessità della disperazione esistenziale”. Vaneggiamenti, insomma, quelli di Pasolini, dovuti al “tormento per l’usura della ragione” tipico di chi “assiste, e anche partecipa, allo scontro politico e sociale pretendendone effetti non politici ma estetici” e addirittura “guarda alla lotta politica e di classe con occhio mitologico” [9].

Sia le critiche di Ferrara, sia quelle di Calvino, sono più che comprensibili: nel momento in cui la maggioranza del popolo italiano ha dimostrato di credere in ideali laici e non più bigotti, guardare al passato con un senso di vaga nostalgia è un atteggiamento che appare non degno di un intellettuale che si prefigga di contribuire al progresso sociale. Non è un caso che entrambi ricorrano all’immagine di un uomo con la testa rivolta indietro per descrivere il modo in cui lo scrittore corsaro analizza quanto accade intorno a lui [10].

La replica di Pier Paolo Pasolini a queste critiche arriva l’8 luglio, nella lettera aperta indirizzata proprio a Italo Calvino. “L’«Italietta» – ribatte innanzitutto Pasolini – è piccolo-borghese, fascista, democristiana; è provinciale e ai margini della storia; la sua cultura è un umanesimo scolastico formale e volgare. Vuoi che rimpianga tutto questo?”. Quello che Pasolini dice di rimpiangere è piuttosto “l’universo contadino”, “pre-nazionale e pre-industriale”, che è “un universo transnazionale” il quale “addirittura non riconosce le nazioni” in quanto “avanzo di una civiltà precedente”. Quanto poi ad un’altra accusa che gli è stata rivolta, secondo la quale la sua nostalgia per l’Italia perduta gli annebbierebbe la lucidità nell’analizzare l’Italia presente, Pasolini chiarisce che quel suo rimpianto non gli impedisce affatto di esercitare la sua critica “sul mondo attuale così com’è”. È, al contrario, proprio perché egli sceglie di vivere “solo stoicamente” nella società attuale, che riesce a riscontrare quella che è la caratteristica discriminante della nuova epoca rispetto a qualunque altra epoca passata: e cioè una “ansiosa volontà di uniformarsi” che non opera più soltanto, come è sempre stato, all’interno dei confini delle classi sociali e nel rispetto dei particolarismi culturali, ma che agisce “secondo un codice interclassista” [11]. L’Italia che Pasolini rimpiange è dunque quella in cui nessuno si sentiva costretto ad abiurare la propria cultura per ottenere di vedersi accettato nell’unica classe sociale che il Potere dei consumi è disposto ad ammettere: la borghesia. L’Italia, cioè, “della gente povera e vera che si batteva per abbattere” il padrone “senza diventare quel padrone” [12].

Se, tuttavia, questo suo rimpianto diventa oggetto di pesanti accuse – di revisionismo, di apologia del fascismo, di reazionarismo – lo si deve anche al modo in cui Pasolini descrive l’Italia di cui dichiara di aver nostalgia. Egli non rinuncia, infatti, a proporne immagini vaghe e poetiche, volutamente mitizzate; oppure si rifà ad esperienze e ricordi del tutto personali per arrivare a dimostrare la superiorità di quel mondo ormai perduto. Il tutto, tra l’altro, unito ad una innegabile voluttà nel portare le proprie argomentazioni fino ad esiti estremi per poter provocare lo scandalo di interlocutori e rivali. Come accade il 9 dicembre 1973, sulle colonne del «Corriere della Sera»:

Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata […]. Si può dunque affermare che la “tolleranza” della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana [13].

È evidente come Pasolini, nel condannare la dilagante omologazione non dei costumi esteriori, ma delle coscienze fin nella loro più profonda intimità, arriva a sminuire le atrocità vissute, nel corso del ventennio fascista, dalle masse del popolo italiano, che vengono di nuovo viste sotto una luce eccessivamente idilliaca.

Tutto ciò offre a Edoardo Sanguineti la possibilità di ironizzare, su «Paese Sera» del 27 dicembre, in maniera feroce sulle convinzioni di Pasolini.

Com’era verde, però, la nostra valle! E com’erano carini i sottoproletari di una volta! Io me li ricordo benissimo, pittoreschi e straccioni, che con la selezione naturale venivano su come tante querce. […] Ah, i nostri ragazzi di Vita, che bella Vita violenta che si facevano [14].

Il sarcasmo di Sanguineti investe anche l’ipotesi pasolinana secondo cui i giovani proletari, fino a qualche anno prima, “erano fieri del proprio modello popolare di analfabeti in possesso del mistero della realtà”, mentre ora, vergognandosi della propria ignoranza, “hanno cominciato a disprezzare anche la cultura” [15].

Brutti tempi, quando i sottoproletari si infilano la cattiva strada che li può portare, un giorno o l’altro, non so, a leggere Vico, a leggere Gramsci. Perduta la splendida «rozzezza» di un tempo, si sono messi anche a fare gli «studenti», i maleducati […].


Insomma, per me, a dirla schietta, mi andava benissimo il Fascismo. Era centralista anche quello, va bene, ma almeno non funzionava, e gli «antichi modelli» prosperavano come non mai [16].

In maniera piuttosto aspra Sanguineti declassa il discorso di Pasolini a semplice “nostalgia del fascismo” e a rimpianto dell’“analfabeta felice”. Egli si insinua nelle crepe che l’estremismo retorico di Pasolini lascia aperte nel suo articolo del «Corriere» rendendolo, in alcuni punti e a prima vista, troppo radicale e sentenzioso per essere condiviso. E allargando quelle crepe, Sanguineti mostra l’apparente fragilità dell’intera ideologia dell’avversario.

Ma da dove nasce questo senso di nostalgia di Pasolini nei confronti dell’Italia arcaica? E soprattutto: perché Pasolini arriva a rimpiangerla, secondo quanto sostengono i suoi avversari, fino al punto di ridimensionarne ingiustizie e storture, esponendosi così a facili critiche?

Premesso che l’amore di cui Pasolini ama le masse proletarie è in gran parte sinceramente istintivo, dunque non razionalmente spiegabile, credo che a determinare questo sentimento di straordinaria vicinanza contribuiscano anche motivi più concreti.

Innanzitutto, Pier Paolo Pasolini, nella disperata tensione a ritagliarsi uno spazio importante nel panorama intellettuale degli anni ‘50, si scopre un analista acuto di quelle masse, in parte per la sua non comune capacità di osservazione, in parte per la sua morbosa curiosità antropologica che lo spinge a frequentare ambienti solitamente rifuggiti da scrittori e registi. Nel corso di pochi anni – quelli che vanno dalla pubblicazione di Ragazzi di vita (1955) alla produzione di Accattone (1961) – Pasolini diventa una sorta di autorità in materia di “analisi del sottoproletariato”. Un’autorità discussa e spesso criticata, ma indubbiamente un’autorità. Non è da escludere, dunque, che il narcisismo che affligge Pasolini lo porti a riversare su quelle classi sociali un amore che è anche il riverbero di un autocompiacimento: si affeziona a certe tipologie umane in virtù del fatto che esse costituiscono il soggetto delle sue opere artistiche, grazie alle quali è divenuto famoso, sia in Italia sia all’estero.


In secondo luogo, come un’intera “micro-sezione” della prima parte delle Lettere luterane [17] sta a testimoniare, Pasolini è riconoscente al sottoproletariato rurale per avergli rivelato l’esistenza di “altri mondi”, oltre a quello che lui, nei primi anni della sua vita, riteneva fosse l’unico mondo esistente, “così cosmicamente assoluto”: il mondo piccolo-borghese [18]. Ed è proprio questa consapevolezza, che Pasolini è convinto d’aver maturato con maggiore precocità e radicalità rispetto ad altri intellettuali, che gli ha permesso di distaccarsi dalla schiera di quelli che lui definisce “i teppisti del conformismo”, ovvero quegli scrittori che “oppongono al vero scandalo della ricerca libera e critica, il falso scandalo di una cultura stabilita”, ponendo, più o meno volontariamente, “l’universo conformista cui essi appartengono per nascita” come l’unico universo esistente [19]. Non ritengo perciò condivisibile l’affermazione espressa su «L’Unità» del 6 marzo 1995 da Sanguineti, secondo cui “Pasolini è scrittore antiborghese perché in lui c’è una volontà di martirio che lo porta a voler espiare una colpa assoluta e a trasformare in rito negativo la propria colpevolezza di borghese” [20]. Pasolini, infatti, quel senso di colpa non lo avverte affatto: la sua appartenenza alla borghesia è vissuta in maniera tutto sommato pacifica, poiché il suo orgoglio di intellettuale che sa “rompere le barriere” di classe e sospingersi nel mondo sottoproletario inibisce in lui qualunque istinto al martirio. E difatti Pasolini benedice più volte il suo “amore tradizionale e non ortodosso per il popolo” che gli ha permesso di vivere “fuori dall’inferno cui per nascita, censo e cultura” era “destinato” [21].

Quest’amore di Pasolini per l’Italia “prima della scomparsa delle lucciole” non deve però ingannare: quella era la stessa Italia che presentava, anche agli occhi dello scrittore bolognese, delle storture assolutamente tragiche. Tant’è che quando Calvino gli rimprovera di rimpiangere l’Italietta, Pasolini afferma: “per quel che mi riguarda personalmente, questa Italietta è stata un paese di gendarmi che mi ha arrestato, processato, perseguitato, tormentato, linciato per quasi due decenni” [22], esprimendo un disagio nei confronti di quella società che è tangibile, e che emerge chiaramente, tra l’altro, dai dialoghi che Pasolini intrattiene nel 1960 con i lettori di «Vie Nuove».

Se dunque, a distanza di qualche anno, quell’Italia risplende nelle memorie dell’articolista del «Corriere della Sera» come una società così idillica, il motivo che fa assumere all’“universo «popolare»” descritto da Pasolini “caratteri più arcaici del vero” [23], non può essere un banale rimpianto figlio della nostalgia. Le ragioni sono più complesse.

Di fronte all’avvento del neocapitalismo e di tutte le mutazioni, antropologiche e socio-economiche, che esso comporta, Pasolini si sente inorridito. Forse perché riesce ad arguire con particolare perspicacia le conseguenze peggiori a cui l’affermarsi di quel nuovo Potere condurrà, egli è irremovibile nel condannarne ogni aspetto. Nel far questo non accetta alcun invito alla moderazione, neppure laddove dei distinguo apparirebbero doverosi. Pasolini è consapevole di questo suo estremismo – se confessa a Calvino: “naturalmente queste mia «visione» della nuova realtà culturale italiana è radicale: riguarda il fenomeno come fenomeno globale, non le sue eccezioni, le sue resistenze, le sue sopravvivenze” [24] – ma non se ne cura. Il suo rifiuto così totale per la “nuova epoca” deve esprimersi in maniera altrettanto drastica e definitiva. È per questo che Pasolini traccia un’immaginaria linea di demarcazione, ben netta: da un lato sta l’Italia arcaica e rurale, dall’altro l’Italia assoggettata alle logiche del neocapitalismo. E tanto più quella attuale deve apparire mostruosa agli occhi dei lettori, per poter essere compresa in tutto il suo orrore, tanto più quella precedente deve assurgere a modello. La mitizzazione dell’Italia arcaica e contadina è dunque funzionale a rendere più efficace la critica alla società contemporanea. Di fronte a quest’esigenza, Pasolini si sforza di ignorare tutte le deformità del passato: di volta in volta le sottovaluta, le declassa a semplici segni del tempo, le dilava fino a farle scolorire. E spesso arriva anche a nobilitarle e a contrapporle agli obbrobri, quelli sempre estremizzati, del presente; noncurante, anzi forse desideroso, delle eventuali critiche che quelle sue affermazioni così radicali si attirano.

Come quando, recensendo il libro di Sandro Penna, Un po’ di febbre, esordisce con un’affermazione volutamente provocatoria: “Che paese meraviglioso era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo! La vita era come la si era conosciuta da bambini, e per venti trent’anni non è più cambiata”. E da lì ha inizio un panegirico, dai tratti bozzettistici e surreali al contempo, sull’aspetto “profondo e bello” delle città e degli uomini di una volta, che non rifiuta neppure di lodare l’emarginazione e la subalternità cui erano relegate le donne e la “qualità meravigliosa” dei ladri di allora, i quali “non erano mai volgari”. Naturalmente, quando si arriva al confronto con la situazione attuale, tutto diventa “laido e pervaso da un mostruoso senso di colpa” [25].

L’ambiguità è evidente, ma va contestualizzata all’interno di quella che credo si possa definire la “poetica dell’urgenza” che è del Pasolini corsaro e luterano, e che si manifesta in una prosa dogmatica e sentenziosa, unita ad una foga retorica travolgente. Urgenza che non consiste, tuttavia, nel voler bloccare la storia, portare indietro le lancette del tempo e ripartire da un punto stabilito, come talvolta, leggendo gli Scritti corsari e le Lettere luterane, si è indotti a pensare. Nel Pasolini che scrive sulle colonne del «Corriere della Sera» c’è un’urgenza più autentica che non quella di condannare e distruggere, e cioè quella di spiegare agli Italiani la trasformazione cui essi stanno andando incontro, affinché la vivano, visto che ormai la vivono sulla propria pelle, “consapevolmente” e non, come invece accade, “esistenzialmente”.

Tutto ciò appare più che mai evidente negli articoli in cui Pasolini denuncia la necessità di portare alla sbarra del tribunale i “gerarchi Dc”. Quella che lui ricerca, attraverso l’istituzione di un processo penale ai loro danni, non è soltanto una legittima richiesta di giustizia per gli abominevoli errori commessi dal regime democristiano negli ultimi vent’anni; Pasolini vuole piuttosto rendere consapevoli i cittadini italiani che ormai il vero potere non è più detenuto dal “nulla ideologico mafioso” [26] che è la DC, ed è per questo che i suoi dirigenti possono sfilare ammanettati in un’aula di tribunale.

Cosa verrebbe rivelato alla coscienza dei cittadini da tale Processo […]?

Verrebbe rivelato […] qualcosa di essenziale per la loro esistenza, cioè questo: i potenti democristiani che ci hanno governato negli ultimi dieci anni non hanno capito che si era storicamente esaurita la forma del potere che essi avevano servilmente servito nei vent’anni precedenti […] e che la nuova forma di potere non sapeva più (e non sa più) che farsene di loro.

Questa «millenaristica» verità è dunque essenziale per capire […] che è finita l’epoca, appunto millenaria, di un «certo» potere ed è cominciata l’epoca di un certo «altro» potere [27].

L’urgenza ultima di Pasolini è, in definitiva, quella di convincere le parti migliori e per certi versi ancora sane dell’Italia – molti suoi colleghi intellettuali, una parte dei “giovani iscritti, ma proprio iscritti, al Pci”, il PCI medesimo, non a caso definito “un paese pulito in un paese sporco”, una parte del mondo cattolico, con cui il rapporto è però molto più problematico – ad opporsi alla deriva capitalistica e a proporre un nuovo modello sociale, che abbia come obiettivo il “progresso” e non lo “sviluppo”, come punti di riferimento valori “umanistici” e non “consumistici”, come dottrine politiche fondanti quelle “marxiste” e non quelle “neocapitaliste”. Chi accusa Pasolini di desiderare una restaurazione, chi riscontra nel suo pensiero una “nostalgia di un passato anche tinto di nero” [28], dimentica che mai si potrebbe considerare Pasolini come un reazionario, proprio perché è lui stesso il primo a sapere che non c’è nulla da restaurare: c’è semmai da andare a ricercare, tra le macerie di un passato ormai distrutto dalla storia, quei valori che possono offrirsi come una valida base d’appoggio per costruire una nuova società. Pasolini sapeva, come ha evidenziato Fortini, che la realtà da lui tante volte rimpianta “non era mai esistita”, e che essa piuttosto “era ‘davanti’, da conquistare, non da recuperare” [29].

Pasolini al «Corriere della Sera» : “Quello che rimpiango” un testo di Valerio Valentini (2014)

1. Sviluppo economico e modelli di vita, «L’Unità», 23 dicembre 1973. 2. Si tratta di: “Significato del rimpianto”, “Poesia popolare”, “Appunto per una poesia in lappone”, La recessione”, “Appunto per una poesia in terrone”. Ora in Pier Paolo Pasolini, La nuova gioventù, Torino, Einaudi 2002. 3. Viene da chiedersi se non abbia in realtà ragione Alfonso Berardinelli, quando afferma, a proposito della poesia di Pasolini, che è del tutto impossibile valutarla “da un punto di vista puramente formale”, giacché di un autore che dichiara “di volersi liberare dello stile a vantaggio del messaggio e del contenuto” risulterebbe quantomeno inopportuno giudicare i versi a prescindere dalle convinzioni ideologiche che essi esprimono. Cfr. Berardinelli, Alfonso, Tra il libro e la vita, Torino, Bollati Boringhieri 1990, p. 58. 4. Riva, Valerio, Com’era verde la mia borgata, «L’Espresso», 13 gennaio 1974. 5. Cfr. prima parte. 6. È nato un bimbo: c’è un fascista in più, «L’Espresso», 23 giugno 1974. 7. Guarini, Ruggero, Quelli che dicono «no», «Il Messaggero», 18 giugno 1974. 8. Ferrara, Maurizio, I pasticci dell’esteta, «L’Unità», 12 giugno 1974. 9. Ibidem. 10. Pasolini, a sua volta, rivolgerà la stessa accusa ai suoi colleghi, “la bella truppa di intellettuali” tutti simili a “quelle marionette che fanno tanto ridere i bambini perché hanno il corpo voltato da una parte e la testa dalla parte opposta”. Sono parole riferite da Pasolini il 1° novembre 1975 a Furio Colombo, in un’intervista ora in Pasolini, Pier Paolo, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Milano, Mondadori 1999, p. 1727. 11. Pasolini, Pier Paolo, Scritti Corsari, Milano, Garzanti 2008, pp. 51-55. 12. Dalla stessa intervista a Colombo, in id., Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1727. 13. Pasolini, Scritti corsari, cit, p. 22. 14. Sanguineti, Edoardo, La bisaccia del mendicante, «Paese Sera», 27 dicembre 1973. 15. Pasolini, Scritti corsari, cit p. 24. 16. Sanguineti, La bisaccia del mendicante, cit. 17. Consistente negli articoli pubblicati su «Il Mondo» tra il 10 aprile e il 1° maggio 1975. 18. Pasolini, Pier Paolo, Lettere luterane, Torino, Einaudi 2003, pp. 35-36. 19. Pasolini, Pier Paolo, Descrizioni di descrizioni, Milano, Garzanti 2006, pp. 263-264. 20. Golino, Enzo, Tra lucciole e Palazzo, Palermo, Sellerio 1995. 21. Pasolini, Liberty in borghese, in Id. Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1242. 22. Id., Scritti corsari, cit, p. 51. 23. Fortini, Franco, Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi 1993. 24. Pasolini, Scritti corsari, cit., p. 54. 25. Ivi, p. 143. 26. Id., Lettere luterane, cit, p. 78. 27. Ivi, pp. 115-116. 28. Casalegno, Carlo, Chi è peggiore?,«Panorama», 7 novembre 1974. 29. Fortini, Attraverso Pasolini, p. 145
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