Maria Callas, Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia e Dacia Maraini nella Grande Mosquea di Djenné (Mali), Marli Shamir collection, National Museum of African Art (Smithsonian Digital Archive) © Tutti i diritti riservati
Africa. 1969. Un continente che sembrava immobile, addormentato nella sua povertà laboriosa, nei suoi rituali arcaici, nelle sue bellezze naturali. Non era un viaggio turistico il nostro, perché accompagnavamo Pier Paolo Pasolini nelle sue ricerche dei luoghi per un film che si sarebbe ispirato all’Orestiade di Eschilo. Con lui c’erano due tecnici e c’eravamo noi, Alberto, Ninetto ed io. Pier Paolo, con la sua voce soave, ci aveva semplicemente detto: «Io vado in Africa a dicembre, venite con me?». E come ogni volta da diversi anni, ci siamo aggregati. Non avevamo pensato che questa volta saremmo stati obbligati a inseguire i fantasmi di un sogno cinematografico: il corpo giovane e fuggitivo di Oreste, la vendicativa Clitennestra, la tristissima e innamorata Cassandra, il bell’Egisto. E di seguito i luoghi del racconto: il palazzo degli Atridi, la stanza del delitto famigliare, la tomba di Agamennone, la casa di Elettra.
Il significato nascosto dell’Orestea
Ci fermavamo nei villaggi più sperduti, ci inoltravamo per stradine terrose non segnate sulle carte, fermandoci a dormire nelle missioni. Pier Paolo era preso, in un suo modo discreto e fervente, dalla impresa cinematografica, ma non dimenticava gli amici che lo accompagnavano. Ogni luogo che gli pareva adatto al racconto, ci interrogava, e si discuteva per ore del significato nascosto dell’Orestea, di cui lui aveva fatto una bellissima traduzione. Aveva ragione Platone a insistere sulla costruzione della Polis? Io mi soffermavo sulla cecità dell’attaccamento di Elettra per suo padre: era solo una questione di dinastia o qualcosa di profondo e viscerale? E quanto corrisponde all’idea di Eschilo il destino di una giovane donna che si fa padre di suo padre, imparando a detestare la madre? Era parte della metamorfosi storica questo odio verso le madri? Certamente c’era la volontà di dissacrarle. Ma la rabbia di Clitennestra veniva dal fatto che il marito le aveva sacrificato la figlia Ifigenia per fare partire le navi o perché era innamorata di Egisto e voleva dividere con lui il potere sulla città? E le Erinni come si potevano rappresentare? Era importante insistere sulla metamorfosi? O era narrativamente più giusto farle trovare già ammansite e trasformate in Eumenidi? E si poteva dire, come pensava Alberto, che anche l’Africa stava vivendo il passaggio, caro a Eschilo, da una antichità selvaggia e dionisiaca a una modernità apollinea? Era possibile trasformare un antico diritto materno in qualcosa di amorevole e civile?
Insomma era un gran discutere mentre correvamo con la Land Rover sulle strade polverose di una Africa ospitale e gentile. Una Africa di grande povertà, ma intenta a gustare la gioia di stare al mondo nonostante i tanti bisogni, coltivando alcuni poveri cibi e sognando di un paradiso ancora abitato da divinità segrete e animali selvatici. Ma c’era mai stato un luogo dove i fratelli giocassero insieme invece di scannarsi? Stavamo rincorrendo quella memoria?
Il fiabe dei cantastorie
Per giorni e giorni non incontravamo città, ma solo qualche villaggio su cui il lavoro ferveva regolato. Gli uomini raccoglievano il miglio da cui le donne poi, bollendolo in pentole di rame, ricavano una buonissima birra poco alcolica ma ricca di calorie. Si vedevano giovani sdraiati sulle amache che fumavano pacifici, ascoltando un cantastorie che raccontava fiabe antiche. Nei grandi mercati dominavano le donne: chi in piedi accanto a gabbie zeppe di polli e conigli, chi accovacciata per terra accanto a piccoli focolari su cui friggevano minuscoli pesci contorti e pieni di spine. Sciami di bambini giocavano in mezzo alla strada non asfaltata con un pallone fatto di pezzi di copertone cuciti malamente.
La cosa più preziosa di quelle campagne bruciate era l’acqua. Lo si capiva dal continuo andare e venire di donne e anche bambine che si facevano decine di chilometri a piedi per andare a riempire un vaso immergendolo dentro uno stagno dove sguazzavano i maiali. Per questo tante madri continuavano imperterrite ad allattare i loro figli fino a due, tre anni, dato che il passaggio dal latte materno all’acqua delle paludi porta malattie e morte. In effetti abbiamo incontrato molti funerali, soprattutto di bambini: falciati dalla malaria, dal tracoma, dal colera, ma anche dalla fame e dalla sete. Una volta ci siamo fermati lungo una strada in mezzo alle dune alte perché una donna ci aveva fatto segno con un braccio alzato. Pensavamo chiedesse un passaggio, ma lei voleva solo un sorso d’acqua. Noi portavamo sulla Land Rover delle taniche d’acqua. Ne abbiamo tirato giù una da tre litri e l’abbiamo allungata alla donna perché ne bevesse un poco. Ma lei, con una avidità mai vista, se l’è ingollata tutta, e nessuno di noi ha avuto il coraggio di fermarla.
Pier Paolo aveva già trovato un Oreste bellissimo dallo sguardo mite e risoluto: alto, dinoccolato, le braccia lunghe, le grandi mani nere che si passava continuamente sulla faccia come per togliersi una maschera che non c’era. Aveva anche scoperto in un negozietto fumoso una possibile Elettra dalla testa folta di capelli ricci nerissimi, il sorriso muto e misterioso. Per Agamennone c’erano due possibilità: un pastore dagli occhi di fuoco su una faccia butterata, o un pescatore dai tratti biblici, lo sguardo deciso, le gambe magrissime e muscolose. Mancava ancora una Clitennestra credibile. Ci eravamo fermati varie volte a filmare delle donne chine sui campi, altre che camminavano dritte e orgogliose col loro carico di banane sulla testa, altre ancora che pulivano il piccolo cortile davanti casa con una scopetta fatta di foglie di palma. Ma nessuna di loro lo convinceva. La ricerca continuava.
Alla ricerca di un bel fumo
Una mattina Pier Paolo ci ha detto che quel giorno voleva dedicarlo alla ricerca di un bel fumo, quello che doveva avvertire da lontano l’arrivo di Agamennone. Un giovane uomo stava di guardia sulla terrazza del palazzo per avvistare da lontano il ritorno del padrone, il vincitore che rientrava dalla guerra di Troia portandosi dietro una moglie schiava: Cassandra. Quel fumo avrebbe dato inizio ai preparativi per l’accoglienza solenne dell’eroe, avrebbe comunicato a Clitennestra che era arrivato il momento di agire contro il marito che le aveva sacrificato la figlia. Quel fumo insomma era importante per il racconto. E per questo Pier Paolo lo voleva poetico. Ma come sarà un fumo poetico? Ci chiedevamo. E lui lo descriveva con pazienza: doveva essere azzurrino, evanescente, ma anche preciso e gonfio e pronto a parlare il linguaggio dei segni. È così che si comunicava al tempo degli Atridi ed Eschilo lo sapeva bene. Per questo comincia il racconto del ritorno di Agamennone con quel fumo che si alza all’orizzonte.
Abbiamo cominciato a girare in lungo e in largo per le campagne ugandesi cercando il fumo giusto. Ma non era facile accontentare Pier Paolo. Di fumi se ne vedevano tanti in lontananza; i contadini africani hanno l’abitudine, una volta finito il raccolto, di mettere a fuoco i campi per renderli più fertili con la cenere. Qualche volta, se c’era vento, il fuoco prendeva il sopravvento e invadeva i villaggi bruciando tutto quello che si trovava davanti. Ma loro stavano attenti, e sceglievano le giornate senza vento e inoltre tagliavano tutti i rami secchi e le erbacce intorno al fuoco fertilizzante.
«Ecco, laggiù guarda, un fumo bellissimo», annunciava l’operatore Giorgio Pelloni e Pier Paolo inforcava il binocolo. Ma poco dopo storceva la bocca: non era proprio quello che voleva lui. Però andiamo a vedere, avviciniamoci, diceva e la Land Rover da otto posti col tetto carico di gasolio e taniche d’acqua e scatolette di tonno e fagioli e gallette, partiva su strade sterrate piene di buchi per avvicinarci al tanto desiderato fumo. «Riprendi, riprendi», era quasi un ritornello. L’operatore serio, riprendeva affacciandosi dalla finestra aperta sul tetto, in piedi sul sedile. Allora sei contento? Chiedeva poi tirandosi giù con la faccia coperta di polvere. Ma Pier Paolo scuoteva la testa. «Non hai visto che era grasso, e nerastro, un fumo che fa pensare a cosciotti di maiale arrostiti, non va bene. Andiamo avanti».
Strade ingobbite e pietrose
Così ricominciava la ricerca di quel fumo cilestrino, gonfio ma non troppo, denso ma non troppo, leggero e nello stesso tempo pesante di significati, un fumo non eccessivamente sconvolto, ma nello stesso tempo rabbioso e tenace, un fumo che prometteva dolori e strazi ma nel modo più delicato e accogliente possibile, un fumo che mentiva evidentemente, ma mentiva con perizia, sapendo di mentire; un fumo che incuteva fiducia, che incantava lo sguardo per le sue volute delicate e serpentine, come se danzasse contro un cielo piatto e metallico come a volte sono gli smisurati cieli africani, annunciando l’arrivo di un grande vincitore, ma anche di un prossimo terribile delitto.
Quel fumo parlante non riuscivamo a scovarlo. E la Land Rover girava e rigirava per strade sempre più ingobbite e pietrose a caccia di un fantasma stregato. Era diventata quasi una ossessione. Una ossessione poetica ma anche comica a momenti. Le giornate di ricerca erano diventate prima due e poi tre, e certamente Gian Vittorio Baldi, il produttore, non gioiva di tanta perdita di tempo. Anche se la troupe era piccola e tutti insieme spendevamo ben poco per una notte sotto una tenda o in una missione o in tre stanze dentro una capanna senza bagno. Ma il tempo era denaro. E i giorni africani venivano contati a Roma con qualche perplessità. Infatti poi il film non è stato fatto e le riprese sono servite per un bellissimo documentario chiamato Appunti per una Orestiade africana. Molte delle riprese, compreso il fumo che annunciava l’arrivo di Agamennone, sono state tagliate e al loro posto Pier Paolo ha voluto girare, una volta rientrati a Roma, un incontro fra il filosofico e il politico, con un gruppo di studenti africani all’università della Sapienza.
Il mito greco e il destino dell’Africa
Ma cosa voleva dire Pasolini con quel film che avrebbe mescolato il mito greco al destino dell’Africa nera? Se lo chiedevano in tanti. Davvero pensava di raccontare il passaggio dal selvaggio regno delle madri al sereno ed equilibrato regno dei padri? E che c’entrava con le ultime visioni paniche e pessimistiche del mondo che aveva rivelato nei suoi film e nelle sue poesie? Non era una contraddizione? Sì, lo era, ma Pasolini viveva di contraddizioni, ne faceva la sua poetica, la sua misura di conoscenza del futuro. Una dialettica che consumava con passo rapido, inseguito come Oreste da dubbi e angosce lancinanti, un passo che lo trasportava rapidamente da un eccesso all’altro, in cerca di una pace impossibile con se stesso. Le sue provocazioni toccavano nel vivo la società italiana che però si allontanava allarmata e scandalizzata: chi è quest’uomo che trasforma la cultura in grimaldello? quest’uomo mite e paziente nella vita che quando scrive o filma tira fendenti a destra e a manca come un antico guerriero? Anche il solo suo stare al mondo risultava insopportabile per una società conservatrice e immobilista, ma pure seduceva i più giovani che sentivano in lui un profeta. E più tardi sarebbe arrivato anche il rispetto e l’amore di tanti altri sparsi per il mondo. Ma purtroppo ormai giaceva dentro una tomba, con le membra straziate.
In quei mesi africani però ancora tutto sembrava potere cambiare per il meglio: il film sull’Orestiade africana si sarebbe girato, e il fumo giusto si sarebbe trovato, quel fumo poetico che ci ha fatto tanto tribolare. In quel lontano anno 1969 Pier Paolo era vivo e non immaginava che il film sarebbe morto prima di nascere e che la sua stessa vita era in pericolo.
Dacia Maraini. In Africa con Pasolini cercando Oreste www.corriere.it, 21 agosto 2017 © Tutti i diritti riservati
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