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Immagine del redattoreCittà Pasolini

Il pianto della scavatrice, una poesia di Pier Paolo Pasolini del 1956



Pier Paolo Pasolini in borgata, nel servizio fotografico per la rivista LIFE © Carlo Bavagnoli/Close-up (1969) / LIFE / Tutti i diritti riservati

I


Solo l'amare, solo il conoscere

conta, non l'aver amato,

non l'aver conosciuto. Dà angoscia


il vivere di un consumato

amore. L'anima non cresce più.

Ecco nel calore incantato


della notte che piena quaggiù

tra le curve del fiume e le sopite

visioni della città sparsa di luci,


scheggia ancora di mille vite,

disamore, mistero, e miseria

dei sensi, mi rendono nemiche

le forme del mondo, che fino a ieri

erano la mia ragione d'esistere.

Annoiato, stanco, rincaso, per neri


piazzali di mercati, tristi

strade intorno al porto fluviale,

tra le baracche e i magazzini misti


agli ultimi prati. Lì mortale

è il silenzio: ma giù, a viale Marconi,

alla stazione di Trastevere, appare


ancora dolce la sera. Ai loro rioni,

alle loro borgate, tornano su motori

leggeri - in tuta o coi calzoni


di lavoro, ma spinti da un festivo ardore

i giovani, coi compagni sui sellini,

ridenti, sporchi. Gli ultimi avventori


chiacchierano in piedi con voci

alte nella notte, qua e là, ai tavolini

dei locali ancora lucenti e semivuoti.


Stupenda e misera città,

che m'hai insegnato ciò che allegri e

feroci

gli uomini imparano bambini,


le piccole cose in cui la grandezza

della vita in pace si scopre, come

andare duri e pronti nella ressa


delle strade, rivolgersi a un altro uomo

senza tremare, non vergognarsi

di guardare il denaro contato


con pigre dita dal fattorino

che suda contro le facciate in corsa

in un colore eterno d'estate;


a difendermi, a offendere, ad avere

il mondo davanti agli occhi e non

soltanto in cuore, a capire


che pochi conoscono le passioni

in cui io sono vissuto:

che non mi sono fraterni, eppure sono


fratelli proprio nell'avere

passioni di uomini

che allegri, inconsci, interi


vivono di esperienze

ignote a me. Stupenda e misera

città che mi hai fatto fare


esperienza di quella vita

ignota: fino a farmi scoprire

ciò che, in ognun, era il mondo.


Una luna morente nel silenzio,

che di lei vive, sbianca tra violenti

ardori, che miseramente sulla terra


muta di vita, coi bei viali, le vecchie

viuzze, senza dar luce abbagliano

e, in tutto il mondo, le riflette


lassù, un po' di calda nuvolaglia.

È la notte più bella dell'estate.

Trastevere, in un odore di paglia


di vecchie stalle, di svuotate

osterie, non dorme ancora.

Gli angoli bui, le pareti placide


risuonano d'incantati rumori.

Uomini e ragazzi se ne tornano a casa

- sotto festoni di luci ormai sole -


verso i loro vicoli, che intasano

buio e immondizia, con quel passo blando

da cui più l'anima era invasa


quando veramente amavo, quando

veramente volevo capire.

E, come allora, scompaiono cantando.


II


Povero come un gatto del Colosseo,

vivevo in una borgata tutta calce

e polverone, lontano dalla città


e dalla campagna, stretto ogni giorno

in un autobus rantolante:

e ogni andata, ogni ritorno


era un calvario di sudore e di ansie.

Lunghe camminate in una calda caligine,

lunghi crepuscoli davanti alle carte


ammucchiate sul tavolo, tra strade di

fango,

muriccioli, casette bagnate di calce

e senza infissi, con tende per porte...


Passano l'olivaio, lo straccivendolo,

venendo da qualche altra borgata,

con l'impolverata merce che pareva


frutto di furto, e una faccia crudele

di giovani invecchiati tra i vizi

di chi ha una madre dura e affamata.


Rinnovato dal mondo nuovo,

libero - una vampa, un fiato

che non so dire, alla realtà


che umile e sporca, confusa e immensa,

brulicava nella meridionale periferia,

dava un senso di serena pietà.


Un'anima in me, che non era solo mia,

una piccola anima in quel mondo

sconfinato,

cresceva, nutrita dall'allegria


di chi amava, anche se non riamato.

E tutto si illuminava, a questo amore.

Forse ancora di ragazzo, eroicamente,


e però maturato dall'esperienza

che nasceva ai piedi della storia.

Ero al centro del mondo, in quel mondo


di borgate tristi, beduine,

di gialle praterie sfregate

da un vento sempre senza pace,


venisse dal caldo mare di Fiumicino,

o dall'agro, dove si perdeva

la città fra i tuguri; in quel mondo


che poteva soltanto dominare,

quadrato spettro giallognolo

nella giallognola foschia,


bucato da mille file uguali

di finestre sbarrate, il Penitenziario

tra vecchi campi e sopiti casali.


Le cartacce e la polvere che cieco

il venticello trascinava qua e là,

le povere voci senza eco


di donnette venute dai monti

Sabini, dall'Adriatico, e qua

accampate, ormai con torme


di deperiti e duri ragazzini

stridenti nelle canottiere a pezzi,

nei grigi, bruciati calzoncini,


i soli africani, le piogge agitate

che rendevano torrenti di fango

le strade, gli autobus ai capolinea


affondati nel loro angolo

tra un'ultima striscia d'erba bianca

e qualche acido, ardente immondezzaio...

era il centro del mondo, com'era

al centro della storia il mio amore

per esso: e in questa


maturità che per essere nascente

era ancora amore, tutto era

per divenire chiaro - era,


chiaro! Quel borgo nudo al vento,

non romano, non meridionale,

non operaio, era la vita


nella sua luce più attuale:

vita, e luce della vita, piena

nel caos non ancora proletario,


come la vuole il rozzo giornale

della cellula, l'ultimo

sventolio del rotocalco: osso

dell'esistenza quotidiana,


pura, per essere fin troppo

prossima, assoluta per essere

fin troppo miseramente umana.


III


E ora rincaso, ricco di quegli anni

così nuovi che non avrei mai pensato

di saperli vecchi in un'anima


a essi lontana, come a ogni passato.

Salgo i viali del Gianicolo, fermo

da un bivio liberty, a un largo alberato,


a un troncone di mura - ormai al termine

della città sull'ondulata pianura

che si apre sul mare. E mi rigermina


nell'anima - inerte e scura

come la notte abbandonata al profumo

una semenza ormai troppo matura


per dare ancora frutto, nel cumulo

di una vita tornata stanca e acerba...

Ecco Villa Pamphili, e nel lume


che tranquillo riverbera

sui nuovi muri, la via dove abito.

Presso la mia casa, su un'erba


ridotta a un'oscura bava,

una traccia sulle voragini scavate

di fresco, nel tufo - caduta ogni rabbia


di distruzione - rampa contro radi palazzi

e pezzi di cielo, inanimata,

una scavatrice...


Che pena m'invade, davanti a questi

attrezzi

supini, sparsi qua e là nel fango,

davanti a questo canovaccio rosso


che pende a un cavalletto, nell'angolo

dove la notte sembra più triste?

Perché, a questa spenta tinta di sangue,


la mia coscienza così ciecamente resiste,

si nasconde, quasi per un ossesso

rimorso che tutta, nel fondo, la contrista?


Perché dentro in me è lo stesso senso

di giornate per sempre inadempite

che è nel morto firmamento


in cui sbianca questa scavatrice?


Mi spoglio in una delle mille stanze

dove a via Fonteiana si dorme.

Su tutto puoi scavare, tempo: speranze


passioni. Ma non su queste forme

pure della vita... Si riduce

ad esse l'uomo, quando colme


siano esperienza e fiducia

nel mondo... Ah, giorni di Rebibbia,

che io credevo persi in una luce


di necessità, e che ora so così liberi!


Insieme al cuore, allora, pei difficili

casi che ne avevano sperduto

il corso verso un destino umano,


guadagnando in ardore la chiarezza

negata, e in ingenuità

il negato equilibrio - alla chiarezza


all'equilibrio giungeva anche,

in quei giorni, la mente. E il cieco

rimpianto, segno di ogni mia


lotta col mondo, respingevano, ecco,

adulte benché inesperte ideologie...

Si faceva, il mondo, soggetto


non più di mistero ma di storia.

Si moltiplicava per mille la gioia

del conoscerlo - come


ogni uomo, umilmente, conosce.

Marx o Gobetti, Gramsci o Croce,

furono vivi nelle vive esperienze.


Mutò la materia di un decennio d'oscura

vocazione, se mi spesi a far chiaro ciò

che più pareva essere ideale figura


a una ideale generazione;

in ogni pagina, in ogni riga

che scrivevo, nell'esilio di Rebibbia,


c'era quel fervore, quella presunzione,

quella gratitudine. Nuovo

nella mia nuova condizione


di vecchio lavoro e di vecchia miseria,

i pochi amici che venivano

da me, nelle mattine o nelle sere


dimenticate sul Penitenziario,

mi videro dentro una luce viva:

mite, violento rivoluzionario


nel cuore e nella lingua. Un uomo fioriva.

IV


Mi stringe contro il suo vecchio vello,

che profuma di bosco, e mi posa

il muso con le sue zanne di verro


o errante orso dal fiato di rosa,

sulla bocca: e intorno a me la stanza

è una radura, la coltre corrosa


dagli ultimi sudori giovanili, danza

come un velame di pollini... E infatti

cammino per una strada che avanza


tra i primi prati primaverili, sfatti

in una luce di paradiso...

Trasportato dall'onda dei passi,


questa che lascio alle spalle, lieve e

misero,

non è la periferia di Roma: "Viva

Mexico!" è scritto a calce o inciso


sui ruderi dei templi, sui muretti ai bivii,

decrepiti, leggeri come osso, ai confini

di un bruciante cielo senza un brivido.


Ecco, in cima a una collina

fra le ondulazioni, miste alle nubi,

di una vecchia catena appenninica,


la città, mezza vuota, benché sia l'ora

della mattina, quando vanno le donne

alla spesa - o del vespro che indora


i bambini che corrono con le mamme

fuori dai cortili della scuola.


Da un gran silenzio le strade sono invase:

si perdono i selciati un po' sconnessi,

vecchi come il tempo, grigi come il

tempo,

e due lunghi listoni di pietra


corrono lungo le strade, lucidi e spenti.

Qualcuno, in quel silenzio, si muove:

qualche vecchia, qualche ragazzetto


perduto nei suoi giuochi, dove

i portali di un dolce Cinquecento

s'aprano sereni, o un pozzetto


con bestioline intarsiate sui bordi

posi sopra la povera erba,

in qualche bivio o canto dimenticato.


Si apre sulla cima del colle l'erma

piazza del comune, e fra casa

e casa, oltre un muretto, e il verde


d'un grande castagno, si vede

lo spazio della valle: ma non la valle.


Uno spazio che tremola celeste

o appena cereo... Ma il Corso continua,

oltre quella familiare piazzetta


sospesa nel cielo appenninico:

s'interna fra case più strette, scende

un po' a mezza costa: e più in basso


- quando le barocche casette diradano

ecco apparire la valle - e il deserto.

Ancora solo qualche passo


verso la svolta, dove la strada

è già tra nudi praticelli erti

e ricciuti. A manca, contro il pendio,


quasi fosse crollata la chiesa,

si alza gremita di affreschi, azzurri,

rossi, un'abside, pesta di volute


lungo le cancellate cicatrici

del crollo - da cui soltanto essa,

l'immensa conchiglia, sia rimasta


a spalancarsi contro il cielo.

È lì, da oltre la valle, dal deserto,

che prende a soffiare un'aria, lieve,


disperata,

che incendia la pelle di dolcezza...

È come quegli odori che, dai campi


bagnati di fresco, o dalle rive di un

fiume,

soffiano sulla città nei primi


giorni di bel tempo: e tu

non li riconosci, ma impazzito

quasi di rimpianto, cerchi di capire


se siano di un fuoco acceso sulla brina,

oppure di uve o nespole perdute

in qualche granaio intiepidito


dal sole della stupenda mattina.

Io grido di gioia, così ferito

in fondo ai polmoni da quell'aria


che come un tepore o una luce

respiro guardando la vallata

V


Un po' di pace basta a rivelare

dentro il cuore l'angoscia,

limpida, come il fondo del mare


in un giorno di sole. Ne riconosci,

senza provarlo, il male

lì, nel tuo letto, petto, cosce


e piedi abbandonati, quale

un crocifisso - o quale Noè

ubriaco, che sogna, ingenuamente ignaro


dell'allegria dei figli, che

su lui, i forti, i puri, si divertono...

il giorno è ormai su di te,


nella stanza come un leone dormente.


Per quali strade il cuore

si trova pieno, perfetto anche in questa

mescolanza di beatitudine e dolore?


Un po' di pace... E in te ridesta

è la guerra, è Dio. Si distendono

appena le passioni, si chiude la fresca


ferita appena, che già tu spendi

l'anima, che pareva tutta spesa,

in azioni di sogno che non rendono


niente... Ecco, se acceso

alla speranza - che, vecchio leone

puzzolente di vodka, dall'offesa


sua Russia giura Krusciov al mondo -

ecco che tu ti accorgi che sogni.

Sembra bruciare nel felice agosto


di pace, ogni tua passione, ogni

tuo interiore tormento,

ogni tua ingenua vergogna


di non essere - nel sentimento -

al punto in cui il mondo si rinnova.

Anzi, quel nuovo soffio di vento


ti ricaccia indietro, dove

ogni vento cade: e lì, tumore

che si ricrea, ritrovi


il vecchio crogiolo d'amore,

il senso, lo spavento, la gioia.

E proprio in quel sopore


è la luce... in quella incoscienza

d'infante, d'animale o ingenuo libertino

è la purezza... i più eroici


furori in quella fuga, il più divino

sentimento in quel basso atto umano

consumato nel sonno mattutino.


VI


Nella vampa abbandonata

del sole mattutino - che riarde,

ormai, radendo i cantieri, sugli infissi


riscaldati - disperate

vibrazioni raschiano il silenzio

che perdutamente sa di vecchio latte,


di piazzette vuote, d'innocenza.

Già almeno dalle sette, quel vibrare

cresce col sole. Povera presenza


d'una dozzina d'anziani operai,

con gli stracci e le canottiere arsi

dal sudore, le cui voci rare,


le cui lotte contro gli sparsi

blocchi di fango, le colate di terra,

sembrano in quel tremito disfarsi.


Ma tra gli scoppi testardi della

benna, che cieca sembra, cieca

sgretola, cieca afferra,


quasi non avesse meta,

un urlo improvviso, umano,

nasce, e a tratti si ripete,


così pazzo di dolore, che, umano,

subito non sembra più, e ridiventa

morto stridore. Poi, piano,


rinasce, nella luce violenta,

tra i palazzi accecati, nuovo, uguale,

urlo che solo chi è morente,


nell'ultimo istante, può gettare

in questo sole che crudele ancora splende

già addolcito da un po' d'aria di mare...


A gridare è, straziata

da mesi e anni di mattutini

sudori - accompagnata


dal muto stuolo dei suoi scalpellini,

la vecchia scavatrice: ma, insieme, il

fresco

sterro sconvolto, o, nel breve confine


dell'orizzonte novecentesco,

tutto il quartiere... È la città,

sprofondata in un chiarore di festa,


- è il mondo. Piange ciò che ha

fine e ricomincia. Ciò che era

area erbosa, aperto spiazzo, e si fa


cortile, bianco come cera,

chiuso in un decoro ch'è rancore;

ciò che era quasi una vecchia fiera


di freschi intonachi sghembi al sole,

e si fa nuovo isolato, brulicante

in un ordine ch'è spento dolore.


Piange ciò che muta, anche

per farsi migliore. La luce

del futuro non cessa un solo istante


di ferirci: è qui, che brucia

in ogni nostro atto quotidiano,

angoscia anche nella fiducia


che ci dà vita, nell'impeto gobettiano

verso questi operai, che muti innalzano,

nel rione dell'altro fronte umano,


il loro rosso straccio di speranza.

    


Pier Paolo Pasolini. Il pianto della scavatrice (1956) nella raccolta Le ceneri di Gramsci (1957) ora in Tutte le poesie, I, Milano, Mondadori, p.840.

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