Pier Paolo Pasolini a Stoccolma 29.10.1975 © Jan E Carlsonn/ Riproduzione riservata
Fu lo stesso Pasolini a parlare in una sua poesia omonima di "disperata vitalità": che è definizione calzante se pure non esauriente. Per il momento basta però de farci dire che questa vitalità ha portato lo scrittore dappertutto, su ogni argomento, sulla strada di ognuno. Ha suscitato tanti dissensi e consensi e riflessioni e rancori da coinvolgere più persone di quante avvicinassero le opere. Sicché ora apprendere che essa si è bruscamente interrotta crea squilibrio e sgomento, oscura il panorama, provoca un silenzio che nemmeno i nemici delle contraddizioni di Pasolini possono facilmente tollerare.
Non è generosa constatazione funebre dire che pochi scrittori italiani del Novecento sono stati capaci di raggiungere e interessare profondamente tanta gente quanta ne ha intricata Pier Paolo Pasolini con la sua opera letteraria, con i suoi film, con i suoi articoli.
Ha sperperato del suo e dell'altrui, compreso quello che gli altri non sapevano di possedere. È difficile dire della nostra prospettiva di contemporanei "prossimi" se egli abbia effettivamente snidato qualche tratto per cui la nostra epoca sarà distinguibile; era un dubbio che dovette avere pure lui, se corse così instancabilmente in tanti temi e linguaggi. Forse tentò di trasformare in virtù una pena: quella che tocca a età di manierismo, canoniche età dello "sperpero" di ogni argomento e linguaggio precedente. Che Pasolini sia stato un eccezionale manierista non toglie niente alla fertilità della sua inesauribile vitalità. Aveva la "disperazione" di non possedere un centro? Sbagliava a credere cattolicamente che fosse indispensabile, ma il suo" errore" l'ha stimolato a una generosità di sé dalla quale hanno tratto guadagno pure gli altri, quand'anche si accertasse che egli ha fatto non poca confusione.
Il manierista sa che la propria esperienza è di secondo grado, che la propria vita è già stata vissuta: minaccia intollerabile e micidiale per chi scrive. Pasolini aveva l'intelligenza e la cultura per riconoscere prontamente i luoghi linguistici dai quali passava. Li sperperava anche nel senso che ne accelerava il consumo e combinava incroci mai visti e allestiva inauditi connubi. Terribile destino dell'artista moderno quello di cercare la "natura", ovvero la sua ultima "storica" metamorfosi, inventando artifici. Terribile destino dell'artista moderno quello di cercare la "natura", ovvero la sua ultima "storica" metamorfosi, inventando artifici. Ma tante volte gli artifici hanno finito con l'essere l'astuzia con cui uno scrittore ha costruito una forma nella quale, mentre vi si va riconoscendo lui, si ritrova anche un'epoca, o meglio quella che sarà l'ideologia di un periodo storico.
Faceva una scelta culturale, cioè un'artificio, anche quando si attribuiva come congeniale "natura" per il mondo dei contadini, dei giovani, dei "dialettali", per cui ha mantenuto nostalgia oltre i limiti del verosimile: come lui stesso sapeva. Quale più contraddetta "natura" però che quella di un dialetto non proprio? Pasolini è diventato celebre con personaggi che parlavano un dialetto che lui non sapeva parlare: i romani di "Ragazzi di vita", vistosa ripetizione e notevole differenza rispetto ai giovani di "Il sogno di una cosa".
L'autore di "Le ceneri di Gramsci" continuava a sognare di farci "storia" con la "natura" che era il suo sogno ricorrente. Il dialetto gli parve ancora il terreno storicamente più fertile e in esso andò a porre radici: magari in quello che si era sradicato nel Sud per andare a imbastirsi nella lercia periferia di Roma. A Pasolini comunque ciò è servito a raccontare la storia di un "candore" che fa bene a non sporcarsi nell'effimero lustro di un benessere che sarebbe stato maledetto dalla storia frettolosa. Ci fu un momento (diciamo i due romanzi, "Ragazzi di vita" e "Una vita violenta") in cui il suo "progetto" coincise col suo "destino" (anche se lo rifiutò quando divenne "destino" di molti, con la contestazione giovanile). Fuori da ogni "ortodossia" ideologica, "inventò" la registrazione di un dialetto degradato, da lingua che era stato, a rumore di cui il narratore "italiano" non capiva il significato. C'era cioè una frattura fra narratore e personaggio, tra un codice comune di interpretazione e una materia linguistico-sociale inedita: dove il personaggio e il suo dialetto sono alternativi rispetto alla cultura dominante, come Pasolini stesso cercava l'estraneità e l'isolamento con cui distinguersi (da ribelli decadenti?).
Come quella dell'autore, la "naturale" purezza dei personaggi non teme corruzione perché non sono capaci logicamente di diventare simili agli altri, di integrarsi in una storia per cui non possiedono gli strumenti del dialogo. I giovani "Ragazzi di vita", la periferia, il dialetto non sono in grado di maturare, di vivere in città, di parlare l'italiano con cui non si distingueranno dagli adulti, dai cittadini, dagli italiani. Essi sono definitivamente, psicologicamente "infantilmente" differenti.
Stava raccontando Pasolini la vicenda simbolica di uno che non vuole, che ha deciso di non essere, che non può essere normale? Forse è vero che innanzitutto c'è un problema psicologico (magari quello stesso che lo spingeva ogni notte a cercare e stabilire contatti, come egli disse, con la nuova realtà: amore che merita comprensione, non moralistiche obiezioni, e non perché è stato pagato così caro, comunque una morte come tante altre, fuori da ogni estetismo "maledetto", che ha risparmiato lui ma non i commenti).
Tuttavia anche se correva veramente per sanare una frattura originaria, Pasolini ha toccato luoghi intatti della "slutess" dei più: prendiamoci le "informazioni" che sappiamo riguardarci, anche se potevano essere indirizzate ad altro fine dal nostro. C'era metafisica ma intanto, più o meno consapevolmente, c'era pure una strada per uscirne: non perdete mai di vista la realtà, specialmente quella che non si comprende; di là vengono le sorprese, le novità che sconfiggono il terrorismo della ripetizione metafisica. le ossessioni private di Pasolini sono assai più ricche della sua contraddittoria ideologia. Lo sapeva gridare ben più alto della lettura del suo discorso.
Pasolini "fingeva", cioè ha fatto spesso delle cose non spontanee o inautentiche; ma è notorio che l'inganno nella cultura è più onesto di una sincerità automatica e ovvia. Abbondano gli intellettuali che riscaldano la minestra di immangiabili banalità, ma a che serve la loro spontaneità per una cultura che, anche se si dichiara progressista, va ripetendo le più trite formule e idee? Ecco: non importa stabilire se Pasolini fosse sincero o disinteressato a fini personali quando provocava la cultura italiana con tesi scottanti e "blasfeme"; di più importa che egli agitava acque stagnanti che emanano tuttora il cattivo odore delle cose risapute. Qualcuno può irritarsi delle capacità che Pasolini aveva di provocare scandali con polemiche volutamente esagerate; ma più illuminante del suo ultimo rapporto col mondo attuale è il fatto che fossero in tanti a reagire. Le sue "finzioni" hanno toccato più di una volta delle "verità" collettive.
Sarebbe rimasto un prezioso poeta dialettale (quello della "Meglio gioventù" se non avesse deciso, con altri compagni di strada, di metter su "Officina". La rivista in cui ha imparato a trasmesso l'arte di "sperimentare": che è sempre il comportamento di chi crede che sia dovere dello scrittore non quello di esprimere quanto si ha da dire, bensì quello di tirar fuori qualcosa che c'è nascosto o represso, e magari quello di inventarne qualche altra su cui, direbbe Benjamin, "generare esigenze"). Ecco: Pasolini sperava presto le esigenze "private" e antiche ma anche quelle collettive e nuove che gli riuscisse di generare. Quando si accorge che le sue parole avevano preso il vizio di irrigidirsi o di tornare sui loro passi le condannò andando a immagini, cioè a cinema, insomma cambiò radicalmente linguaggio che è un altro esempio di quella sua avventurosa disponibili.
Intanto una storia di primo'ordine la mise insieme con una produzione che vanta i versi di "La meglio gioventù" de "Le ceneri di Gramsci", di "Poesia in forma di rosa", la prosa narrativa di "Ragazzi di vita" e "Una vita violenta", nonché i saggi letterari di "Passione e ideologia". Se non fu forse una grande storia, è perché la sua "disperata vitalità" lo spingeva troppo in fretta verso un'altra esperienza. Era capace di guardare molto indietro nel tempo, ma non nelle pagine già scritte. In queste credeva solo nel momento in cui le inventava. "Inganni" in cui si accaniva finché non trovava il ritmo e il volume con i quali urlava la sua "fede" di "miscredente". Poi le buttava via, impostore credulo che non tollera più, l'inganno con cui ha svegliato la spontaneità dei suoi lettori. Egli credeva più all'aggressività delle idee che non a queste: che infatti smentiva quasi subito, mentre continuava a inventarne altre "collettive" che sembrassero, o fossero "sue". Forse si tratta di "vitalismo decadente". Ma a conti fatti esso aiuta a "crescere" ben più di tanti autori edificanti. È doveroso riconoscerlo tanto più oggi che sono così rari gli scrittori capaci di "sprecarsi" quanto Pasolini. Il compianto dunque è già un rimpianto. La morte di Pasolini è, insomma, uno "spreco" che la nostra cultura non si poteva permettere.
Walter Pedullà "Anche sbagliando Pasolini serviva la verità". "La "disperata vitalità nello scrittore" © Avanti. Martedì 4 novembre 1975.
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