Pier Paolo Pasolini nel terrazzo della sua casa di via Giacinto Carini 45, Monteverde, Roma, luglio 1960 © Archivi Farabola/Tutti i diritti riservati
Sì, certo, era un Dio… e altri meno pazzi e stupendi ce n’è. Coi loro sacerdoti, e, vorrei anche dire, con i loro santi.
Santi poveri, martoriati dai ben noti dolori, col terribile dovere di arrivare, senza troppi terremoti,
alla fine del mese, per riavere in tasca le poche sospirate lire: impiegatucci, funzionari, leve
di un Partito, per cui vivere e morire. Felici ti mostrano un paio di scarpe nuove, un quadruccio buono all’appena civile
parete della casa, una bella sciarpa natalizia per la moglie: ma dentro, dietro quell’infantile palpito,
quello stento, ti misurano col metro della loro fede, del loro sacrificio. Sono inflessibili, sono tetri,
nel loro giudicarti: chi ha il cilicio addosso non può perdonare. Non puoi da loro aspettare una briciola
di pietà: non perché lo insegni Marx, ma per quel loro dio d’amore, elementare vittoria di bene sul male,
ch’è nei loro atti. Ma come nel biancore dell’estetico dio del mare, informe Forma, mescolanza irrazionale di gioia e dolore,
sbianca l’opacità del gesso, la norma che svaluta… così arrossa nel rosso dell’altro Dio – quello che trasforma
il mondo, quello futuro ed incorrotto – il sangue dei giorni di Stalin… Non torna nulla. Nemmeno il paradosso
esistenziale, in cui, fertili-aridi, vivono quasi tutti coloro che conosco: borghesi colti, esperti di essenziali
infrastrutture, spiriti del bosco della mondanità, della cultura: a popolare le pure sere di Piazza del Popolo,
dei nuovi quartieri oltre le vecchie mura, del centro dove la città s’infossa in preziosi vicoli scintillanti e luridi…
Genio arreso, con le sue quattro ossa sotto eleganti vesti, ognuno porta intorno una faccia intenta, dove gli altri possano
sospettare qualcosa; nei caffè, di giorno, nei salotti, la sera: ma ognuno cerca nella faccia dell’altro invano un ritorno
delle speranze antiche: e se vi accerta una speranza, è una speranza inconfessabile, nel cerchio della domanda e dell’offerta,
il cui sguardo è come per uno spasimo di interna ferita: che rende esanimi, accidiosi, scontenti, spinge a uno sciopero
dei sentimenti, a una colpevole stasi della coscienza, ad una pace insana, che vuole i nostri giorni grigi e tragici.
Così, se guardo in fondo alle anime delle schiere di individui vivi nel mio tempo, a me vicini o non lontani,
vedo che dei mille sacrilegi possibili che ogni religione naturale può enumerare, quello che rimane
sempre, in tutti, è la viltà. Un sentimento eterno – una forma del sentimento – fossile, immutabile,
che lascia in ogni altro sentimento diretta o indiretta, la sua orma. È quella viltà che fa l’uomo irreligioso.
È come un profondo impedimento che, all’uomo, toglie forza al cuore, calore al ragionamento,
che lo fa ragionare di bontà come di un puro comportamento, di pietà come di una pura norma.
Può renderlo feroce, qualche volta, ma sempre lo rende prudente: minaccia, giudica, ironizza, ascolta,
ma è sempre, interiormente, impaurito. Non c’è nessuno che sfugga a questa paura. Nessuno perciò è davvero amico o nemico.
Nessuno sa sentire vera passione: ogni sua luce subito s’oscura come per rassegnazione o pentimento
in quella antica viltà, in quell’ormone misterioso che si è formato nei secoli. Lo riconosco, sempre, in ogni uomo.
Lo so bene che altro non è che insicurezza vitale, antica angoscia economica: che era regola della nostra vita animale
ed è stata assimilata ora in queste povere nostre comunità: che è difesa, disperata, che si annida là dove
c’è un minimo di pace: nel possesso. E ogni possesso è uguale: dall’industria al campicello, dalla nave al carretto.
Perciò è uguale in tutti la viltà: com’è alle grige origini o agli ultimi grigi giorni di ogni civiltà…
Così la mia nazione è ritornata al punto di partenza, nel ricorso dell’empietà. E, chi non crede in nulla, ne ha coscienza,
e la governa. Non ha certo rimorso, chi non crede in nulla, ed è cattolico, a saper d’essere spietatamente in torto.
Usando nei ricatti e i disonori quotidiani sicari provinciali, volgari fin nel più profondo del cuore,
vuole uccidere ogni forma di religione, nell'irreligioso pretesto di difenderla: vuole, in nome d’un Dio morto, essere padrone.
Qui, tra le case, le piazze, le strade piene di bassezza, della città in cui domina ormai questo nuovo spirito che offende
che non credono – io mi ricuso ormai a vivere. Non c’è più niente oltre la natura – in cui del resto è effuso
solo il fascino della morte – niente di questo mondo umano che io ami. Tutto mi dà dolore: questa gente
che segue supina ogni richiamo da cui i suoi padroni la vogliono chiamata, adottando, sbadata, le più infami
abitudini di vittima predestinata; il grigio dei suoi vestiti per le grige strade; i suoi grigi gesti in cui sembra stampata
l’omertà del male che l’invade; il suo brulicare intorno a un benessere illusorio, come un gregge intorno a poche biade;
la sua regolarità di marea, per cui resse e deserti si alternano per le vie, ordinati da flussi e da riflussi ossessi
e anonimi di necessità stantie; i suoi sciami ai tetri bar, ai tetri cinema, il cuore tetramente arreso al quia…
E intorno a questo interno dominio della volgarità, la città che si sgretola ammucchiandosi, brasiliana o levantina,
come l’espansione di una lebbra che si bea ebbra di morte sugli strati dell’epoche umane, cristiane o greche,
e allinea tempeste di caseggiati, gore di lotti color bile o vomito, senza senso, né di affanno né di pace;
l’anima ad ogni istante, – con i duomi, le chiese, i monumenti muti nel disuso angoscioso che è l’uso d’uomini
sradica i riposanti muri, i gomiti poetici dei vicoli sui giardini interni, i superstiti casolari dalla tinta di pomice
o topo, tra cui fichi, radicchi, svernano beati, i selciati striati di una grama erbetta, i rioni che parevano eterni
nei loro lineamenti quasi umani di grigio mattone o smunto cotto: tutto distrugge la volgare fiumana
dei pii possessori di lotti: questi cuori di cani, questi occhi profanatori, questi turpi alunni di un Gesù corrotto
nei salotti vaticani, negli oratori, nelle anticamere dei ministri, nei pulpiti: forti di un popolo di servitori.
Com’è giunto lontano dai tumulti puramente interiori del suo cuore, e dal paesaggio di primule e virgulti
del materno Friuli, l’Usignolo dolce ardente della Chiesa Cattolica! Il suo sacrilego, ma religioso amore
non è più che un ricordo, un’ars retorica: ma è lui, che è morto, non io, d’ira, d’amore deluso, di ansia spasmodica
per una tradizione che è uccisa ogni giorno da chi se ne vuole difensore; e con lui è morta una terra arrisa
da religiosa luce, col suo nitore contadino di campi e casolari; è morta una madre ch’è mitezza e candore
mai turbati in un tempo di solo male; ed è morta un’epoca della nostra esistenza, che in un mondo destinato a umiliare fu luce morale e resistenza.
Pier Paolo Pasolini. Poemetto La religione del mio tempo (1957-59) poi in La religione del mio tempo, Milano, Garzanti, 1961 ora in Pasolini. Tutte le poesie, Mondadori, Meridiani, volume I, 2003, p. 985.
Dolore,il dolore che esprimono le parole di Pasolini ne preannunciano il tragico destino.
Sei stato sempre lucido. Per noi una guida.
Manchi,
non per quello che sei stato,
ma per quello che potresti ancora raccontar.