Pier Paolo Pasolini a Ostia, primi anni Sessanta © Jerry Bauer /Riproduzione riservata
L’ULTIMA COLONNA DI UN TEMPIO IN ROVINA
L’ufficio anagrafico di Bologna registra il 5 marzo del 1922 la nascita di Pier Paolo Pasolini. Lo storico latino Varrone afferma che la città di Roma sia sorta il 21 aprile del 753 a. C. Pier Paolo Pasolini muore, per cause non del tutto accertate, a cinquantatrè anni. Roma resiste, per cause non del tutto accertate, da oltre duemila. Il poeta delle “ceneri” e l’Urbe, l’autore di “vita” e la sede dell’Impero, il regista degli “accattoni” e la dimora dei Papi sembrano abbiano poco da condividere, invece certi destini s’intrecciano quasi mai per caso. Il giovane friulano e la Città si incontrano il 28 gennaio del 1950, sui binari caotici della stazione Termini, durante il mite inverno dell’Anno Santo. L’intellettuale dissidente e la Capitale, si accomiatano in una notte autunnale tra il 1 e il 2 novembre del 1975, nel fango sanguinolento di un idroscalo, a pochi passi dalle antiche rive di Ostia. Venticinque anni, una specie di nozze d’argento terminate con un addio funesto, un quarto di secolo carico di viscerale empatia, nonostante alcuni screzi.
Un lasso di tempo foriero di trasformazioni sociali e urbanistiche, economiche e politiche, storiche e culturali riguardanti non soltanto Roma, ma l’Italia intera. Son i decenni dopo la Guerra, il Fascismo, le macerie, il Piano Marshall, anni nei quali gli italiani scelgono la Repubblica, il vestito buono per la domenica in Chiesa, devotamente divisi tra Bianchi e Rossi. Un Paese rurale che, stanco di zappare, corre in città dove il lavoro appare sopportabile e i poveri possono scoprirsi ricchi, o se non altro, così promettono i portavoce del miracolo economico. Comincia la lunga stagione delle cambiali, salvacondotto essenziale per garantirsi: la Seicento, la Vespa, la lavatrice, il frullatore, la lucidatrice, il mangiadischi, la vacanza al mare. Le scarpe bucate, i pantaloni rattoppati perdono dignità, la miseria e la fame devono restare chiuse nelle pellicole di Rossellini, nei fotogrammi di De Sica, nelle scene di Visconti. Il Bel Paese dopo avere creduto, obbedito e combattuto, vuole ridere, sperare e guardare avanti; un precetto comprensibile se non nascondesse insidie pianificate. Gli italiani entrano nella società dei consumi così come sfilano tra gli scaffali dei nascenti supermercati, con imprudente candore passano dal mercato rionale, al mercato in scatola. Credono di compiere una scelta, senza accorgersi di essere loro stessi il prodotto di una scelta, di una volontà mossa da un Potere oscuro, che livella le esigenze, la lingua, i desideri, le ambizioni, insomma tendente al conformismo. Il Paese traboccante di realtà individuali, dialetti, gusti, abitudini; la povera Italia dei paesi arrampicati sulle montagne e sdraiati lungo le spiagge, si ritrova a cantare Canzonissima con le stesse facce, parole, intonazioni. Tutti seduti e ben composti davanti alla televisione, elettrodomestico pagato a colpi di cambiali, il nuovo focolare domestico, il più pericoloso comunicatore di massa, l’ipnosi capace di mutare il superfluo in necessario.
Carini 45, Via e Villa Sciarra – (Municipio XII): Nel giugno 1959 lo scrittore, con la mamma e la cugina Graziella, si trasferisce al primo piano di Via Carini n. 45, nello stesso stabile dove abita l’amico Attilio Bertolucci. Ancora Monteverde Vecchio, ancora fra la borghesia di cui non si sente parte, in quella via, signorile e tranquilla resta fino al 1963. «Accorato - in un rantolo che da un angolo si fa canzone imboccando l’allegra Via Carini, un motore di macchina famigliare, italica, è qua, e poi pian piano dilegua, accorato».
Uno scorcio della vita monteverdina appare in una cronaca di Martedì 4 ottobre 1960 alla vigilia del primo giorno di riprese di Accattone: «Bernardo Bertolucci… mi avverte che è arrivato suo padre. Allora mangio in fretta e salgo su al quinto piano. Bertolucci e io abitiamo nella stessa casa, dietro a Villa Sciarra… Ci mettiamo nel suo dolce salotto parmense. E cominciamo a fare una di quelle nostre lunghe chiacchierate, quelle che si fanno proprio tra amici».
Villa Sciarra, o Villa dei pavoni bianchi, è difatti vicinissima a Via Carini, sette ettari per un’oasi di verde, affacciata sulle pendici del Gianicolo, in cui sono cresciute generazioni di abitanti di Trastevere e Monteverde, “studenti, balie, giovinette”. Divenuta parco comunale, fu dei Barberini, degli Sciarra e, infine, della famiglia Wurts che l’arricchisce con statue di arenaria provenienti dal castello visconteo di Brignano d’Adda e la dona al governo fascista per la città, insieme ad una consistente somma per le spese di manutenzione. Luogo di storia e cultura, ameno giardino di scrittori e poeti da D’Annunzio, che vi ambienta il duello de Il Piacere tra «viali di lauri alti e snelli» e «spalliere di rose», al filosofo Hedegger, fino a Caproni, Gadda, Bertolucci e Pasolini il quale, ispirato dal rigoglioso e prepotente ciclico rifiorire, scrive Il glicine, raccolta in La religione del mio tempo: «Eccolo, era morto? Sui / bastioni del Vascello – irreali / come quest’aria che non conosco da piccolo[…]» e poi: «Com’è dolce questa tinta del cadavere / che copre i muraglioni di Villa Sciarra». Oggi il parco, ancora aperto al pubblico, ospita l’Istituto Italiano di Studi Germanici, e la sua ricca biblioteca, all’interno del Casino Barberini. Sfortunatamente il glicine decantato dal poeta è stato reciso.
Cimitero acattolico (Cimitero del Testaccio) – (Via Caio Cestio, 6 - Municipio I): Sorto in risposta al divieto cattolico che negava ai protestanti una sepoltura in terra consacrata, si estende tra la Piramide di Caio Cestio e le Mura Aureliane. Il Cimitero, che risale al 1716 per la concessione di Clemente XI alla sepoltura di alcuni membri della famiglia Stuart in esilio, amplia le proprie dimensioni quando tale privilegio viene esteso anche alle persone non cattoliche. All’area si aggiunge un ulteriore lotto di terra nel 1821, ma continua la sua espansione fino al 1894, raggiungendo le attuali dimensioni. La piccola cappella, poggiata sul muro perimetrale, è datata 1898, mentre nel 1910 Ernesto Nathan, riconosce all’area un alto valore culturale che, otto anni dopo, viene dichiarata monumento nazionale. Molteplici i personaggi sepolti nel cimitero: Dario Bellezza, Gregory Corso, Carlo Emilio Gadda, John Keats, Antonio Labriola, Amelia Rosselli, ma innanzitutto Antonio Gramsci. Le ceneri di Gramsci trovano principale ispirazione da questa tomba e la comunione tra i due spiriti viene consacrata dalla celeberrima foto scattata da Paolo Di Paolo che riprende Pasolini in piedi, con le mani nell’impermeabile, assorto davanti all’urna dell’intellettuale sardo. Nella poesia alcuni versi ne descrivono il mistico richiamo: «Uno straccetto rosso, come quello / arrotolato al collo ai partigiani / e, presso l’urna, sul terreno cereo, / diversamente rossi, due gerani. / Lì tu stai, bandito e con dura eleganza / non cattolica, elencato tra estranei / morti: Le ceneri di Gramsci... Tra/ Speranza / e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato / per caso in questa magra serra, innanzi / alla tua tomba, al tuo spirito restato / quaggiù tra questi liberi».
La morte non è
nel non poter comunicare
ma nel non poter più esser compresi.
(Una disperata vitalità, da Poesia in forma di rosa)
Dialetto romanesco: Il rapporto che lega Pasolini a Roma non è unicamente sociologico e geografico, anche linguistico. Numerosi gli studi dedicati al dialetto, tra cui: I dialettali e Roma, del 1952, La peste a Roma, del 1953 «A Roma tutto il dialetto tende a essere gergale. Non è concepibile per un parlante romano, specialmente se giovane, non dirò una battuta, ma un intero discorso che non sia composto di “punte espressive”, che non sia interamente costituito di parole “vivaci”. […] Il gergo nasce quindi, evidentemente, in centri ben determinati o di artigiani o di ladri: ma si diffonde subito, attraverso una serie di “scelte facoltative” fra tutti i parlanti. E, naturalmente, attraverso una serie di diglossie; preminente quella sessuale; ma notevole anche quella anagrafica: se è distinto il linguaggio degli uomini da quello delle donne, è ben distinto anche quello dei ragazzi e dei vecchi. Questi ultimi, come in tutto il mondo, dovrebbero essere conservativi: ma a Roma mi pare lo siano di meno. Restano un po’ ragazzi tutta la vita: con quel tanto di narcisistico che tiene testa l’inventività in quanto esibizione malandrina». Così si esprime Pasolini in Il gergo a Roma (postumo 1957), ed è noto il valore attribuito dal poeta al dialetto al quale si dedica con studio meticoloso, orientando la propria iniziale ricerca sull’opera di Gioacchino Belli. In Roma e il Belli, saggio apparso su Orazio giugno del 1952, precisa: «L’incontro con il Belli […] è stato il mio ultimo, ma certamente uno dei più stupendi, anche perché forse coincideva con l’incontro con Roma. e con Roma il belli ha in comune quel misto di facilità e di violenza con cui mi si è configurata la sua poesia: il travaso della voce popolana che “parla” entro gli schemi dell’istituzione linguistica, in quelli dell’invenzione linguistica: che consiste nella scelta fatta dal Belli sulla realtà nella durata drammatica dei suoi quattordici endecasillabi». In Romanesco 1950, Pasolini non tace che il dialetto di quegli anni si distanzi pochissimo dall’italiano perdendo il valore assoluto e l’attualità della poesia romanesca, così come ha perso le parole «intraducibili» «conclamato tesoro di ogni dialetto» di continiana asserzione. La tradizione è rotta, La lingua della Roma colta, secondo la teoria del filologo Giulio Bertoni, si rifà a quella fiorentina prendendo il sopravvento su quella popolare che mantiene caratteristiche “tosco-umbre”, chiaro retaggio linguistico lasciato in eredità dai papi toscani del Cinquecento. In questo idioma non c’è: «il parlante dalle caratteristiche tosco-umbre, il trasteverino o il burino, per capirci, la presenza potentemente fisica, addirittura olfattiva, del popolo che ci investe dal classico Belli», afferma Pasolini. Il poeta vernacolare, portavoce nascosto dell’anima romana, di fronte alla nuova realtà linguistica della borgata di certo non sarebbe rimasto «sordo», lui che con il suo impegno di poeta ha saputo esplicitare l’ «omo de vita romano incallito nella sua allegria, che si adegua con una coscienza che non si riscontra in parlanti di nessun’altra città…». Finalità che non ha raggiunto Cesare Pascarella non è riuscito ad essere interprete del suo tempo perché: «attratto da una tentazione piccolo-borghese […]violentava predeterminatamente il popolano in cui secondo il grande insegnamento del Belli regrediva, facendo un popolano assurdamente benestante e nazionalista: e conservandovi del popolo, solo una crosta di colore, gli errori di una assai poco fantastica mancanza di prospettiva storica».
«A Roma tutto il dialetto tende ad essere gergale» cita Pasolini in Il gergo a Roma, del 1957. Il romano ama un linguaggio vivo, fortemente espressivo, che, inevitabilmente, prende origine in determinati e specifici ambienti estendendosi, poi, a tutti i «parlanti» tramite: «una serie di diglossie; preminente quella sessuale; ma notevole anche quella anagrafica: se è distinto il linguaggio degli uomini da quello delle donne, è ben distinto anche quello dei ragazzi e dei vecchi. Questi ultimi – come in tutto il mondo – dovrebbero essere conservativi: ma a Roma mi pare lo siano di meno. Restano un po’ ragazzi tutta la vita: con quel tanto di narcisistico che tiene desta l’inventività in quanto esibizione malandrina».
Ferrobedò (Ferro – Beton): Impresa fondata nel 1908 dal marchese Carlo Feltrinelli, una delle più importanti società di progettazione e costruzione italiane, in grado di realizzare la Metropolitana di Milano, la Torre Velasca e i bacini di carenaggio dei porti di Napoli e Genova, con sede legale a Roma, prima in Via Gaeta, poi in Via Catania. «La Ferrobedò, o per dir meglio la Ferro-Beton», scrive lo stesso Pasolini in Ragazzi di vita, usando il termine in cui la gente di Donna Olimpia storpia il nome di quella società con la quale impropriamente identifica la Cledca, ubicata tra Via di Donna Olimpia e l’attuale Piazzale Dunant.
Dalla descrizione nel romanzo ne risulta un prezioso ritratto urbanistico, uno spaccato sociale che svela un mondo scomparso, un angolo industrializzato inghiottito dalla città: «Il Ferrobedò lì sotto era come un immenso cortile, una prateria recintata, infossata in una valletta, della grandezza di una piazza, o di un mercato di bestiame: lungo il recinto rettangolare si aprivano delle porte: da una parte erano collocate delle casette rettangolari di legno, dall’altra i magazzini. […] Con le ciminiere alte che quasi raggiungevano la strada dal fondo del valloncello con gli spazi pieni di file ordinate di traverse accatastate alla perfezione, con i fasci di binari che luccicavano intorno a qualche vagone immobile e nero, con le file dei magazzini che, almeno dall’alto, parevano sale da ballo, tanto erano puliti, coi loro tetti rossicci tutti uguali in fila». Fino ai decenni Sessanta/Settanta la fabbrica è raccordata alla stazione di Trastevere attraverso un binario che percorre in obliquo piazzale Dunant.
Oggi, tuttavia, dei magazzini o degli stabilimenti non resta altro che il titolo del primo capitolo dell’opera e una citazione in Recit «e infossa il divorato vallo la Ferro-Beton / tra frane di tuguri, qualche marcio frutteto / e file di cantieri già vecchi nel mattino».
Fiaschetteria Beltramme (Cesaretto) - (Via della Croce, 39 – Municipio I): Corre il 1886 quando Cesaretto Beltramme apre la sua fiaschetteria in centro, la cucina e l’arredo sono spartani, la convivialità e l’allegria regnano. Rapidamente per tutti i romani il posto diventa da “Cesaretto”, poi negli anni Trenta si trasforma in piccola trattoria, mentre nei decenni successi comincia a riempirsi di pittori, scrittori, registi: Giorgio De Chirico, Renato Guttuso, Mario Schifano, Alberto Burri, Mino Maccari, Mario Soldati, Italo Calvino. Si racconta che Flaiano e Fellini, tra un pasto e l’altro, attorno ai tavoli abbiano gettato le basi delle sceneggiature de La Dolce Vita e Di Otto e Mezzo. Il locale, assai ridotto nelle dimensioni, conta un bancone in marmo e pochissimi posti a sedere, le tavolate sono uniche e, con piacere, si mangia tutti insieme. Pasolini sosta spesso in questo posto accompagnato dai suoi amici abituali, in particolare Alberto Moravia e Laura Betti, e alcuni scatti del 1961 di Mario Dondero, ne ricordano quegli spensierati momenti.
Gazometro - (Riva Ostiense – Municipio VIII): Dopo l’Officina dei Cerchi, inaugurata nel 1853 da Pio IX e sita vicino al Circo Massimo con il compito di irrorare il gas necessario per l’illuminazione pubblica nell’Urbe, viene avviata anche l’Officina del Popolo, in prossimità di via Flaminia. Se di queste officine non restano tracce, fortunatamente la più grande e moderna Officina Ostiense rimane un prezioso esempio di archeologia industriale. Nel 1910, secondo un progetto dell’ingegner Ulderico Bencivenga, viene costruita per soddisfare le esigenze energetiche di una Capitale in rapida crescita, attivando uno stabilimento nel quale si adottano moderni sistemi di produzione e smaltimento. Dal 1908 al 1910, nell’ansa del fiume nascono magazzini, sale forni, zone di deposito per il coke, macchine per l’estrazione del gas, vasche per l’acqua e, soprattutto, tre gazometri. Appena un biennio dopo la Società Anglo – Romana, proprietaria degli impianti, presenta alla Commissione edilizia ulteriori progetti di ampliamento, piani rapidamente eseguiti. Nel dicembre del 1925 le due società si separano e nasce la Società Romana Gas pesantemente bombardata nel marzo del 1944, ma negli anni Sessanta, quando lo sviluppo energetico amplia le proprie conoscenze, i fabbricati vengono gradualmente dismessi per convergere verso nuove soluzioni tecniche.
In Ragazzi di vita il Gazometro assiste allo scorrere lento del Fiume, ai bagni festosi dei giovani, troneggiando tra le alte ciminiere e i massicci fabbricati della zona, uno scheletro di ferro descritto con rapide, ma efficaci parole: «con il gasometro enorme contro il cielo, e tutto il quartiere di Monteverde, all’orizzonte, sopra le scarpate putride e bruciate, con le sue vecchie villette come piccole scatole svanite nella luce».
Il Gazometro è uno dei tanti simboli che caratterizzano il decadente paesaggio urbano di quegli anni, degli scenari dipinti da Renzo Vespignani, autore cresciuto al Portonaccio, ma attento ai “profili” di Roma. Il 16 novembre 1956 Pasolini, durante la presentazione presso la Galleria L’Obelisco della mostra sul pittore, manifesta apprezzamento per l’impegno artistico: «La novità di Vespignani consiste dunque nel voler realizzare prima del razionale atto estetico, il proprio oggetto ispiratore. Sicché: da tale oggetto intuito, irrelato, ossessionante, che, nel caso di Vespignani, è una visione della periferia prima di passare all’atto del dipingerlo, del riprodurlo attraverso un’occasione (una veduta del Porto Fluviale, il Gazometro, un capolinea di borgata, un casamento popolare) c’è nel Pittore il tentativo di spiegarselo storicamente: di ridurlo a concrezione visiva di un problema di vita moderna, di costume, di tematica sociologica. Il fantasma pittorico di Vespignani, coincide con la sua passione ideologica».
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