La casa di Laura Betti è all'ultimo piano di un vecchio palazzo nel centro di Roma a pochi passi da Palazzo Farnese, una casa storica per un certo gruppo di intellettuali italiani dalla quale l'attrice dovrà separarsi nei prossimi mesi. Salendo con un ascensore che presi molte volte con Alberto Moravia, mi trovo a casa di Laura Betti. Lo stesso arredamento, lo stesso tavolo rettangolare, lungo, circondato da quadri dipinti dallo stesso Pasolini o da Schifano attorno al quale si sono seduti da Pasolini a Moravia, da Bertolucci a Siciliano, da Volponi a molti altri intellettuali italiani. Laura Betti con una tazza di caffè in mano, con il suo fare un po' infastidito e stravagante parla al telefono e poi ride, ride parlando del suo film «Pierpaolo Pasolini, la ragione di un sogno».
Processo Pasolini per il film "La Ricotta" Laura Betti con Pier Paolo, 8 marzo 1963 8/3/63 © Rodrigo Pais/Archivio Università di Bologna/Tutti i diritti riservati
Di che cosa parla il suo film?
«Questo film mi bolliva in testa da molto tempo. Prima non pensavo di fare un film, poi fu Ciccutto a convincermi, un funzionario Rai, e così mi trascinò in un girone infernale. Però quando ho un'idea in testa non ce la faccio a non perseguirla, forse chiunque si sarebbe scoraggiato di fronte alle mille difficoltà, però la mia idea era molto chiara e così ho faticato. Non avevo dimenticato niente di quello che la vita mi aveva fatto vedere. Pierpaolo non c'era più, non c'era più Moravia e così sentivo che dovevo fare questo». Allora cosa ha fatto?
«Volevo ricucire delle parole di Pierpaolo. Parole che si erano perse in muri solidi, c'erano delle cose che mi sconvolgevano. La parola di Pierpaolo era stata messa molte volte in dubbio, e questo mi sconvolgeva. Era come se tutta l'Italia fosse sorda, mentre io sentivo ancora le sue parole che ancora oggi mi tengono sveglia.Ho capito che Pierpaolo in Italia era un personaggio in prima linea, e non era stato facile studiarlo come autore, come scrittore di parole».
Ha nostalgia di quegli anni, si sente una sopravvissuta?
«No, perché purtroppo mi piacerebbe stare in un'amaca e mangiare dei cioccolatini. L'amaca non la posseggo e i cioccolatini mi sono proibiti, e poi devo guardare avanti. Per esempio, adesso devo traslocare e andare in una casa nuova e avrò anche un decoder, me lo regalano. Poi di fianco a casa mia c'è il cinema Adriano con otto sale nuove, prenoterò i film per il pomeriggio, anche per i miei amici. No, non sono nostalgica, credo che mi sia piombata addosso una tremenda crudeltà dopo l'assassinio di Pasolini. Poi non si dimentica. Quindi è subentrato un mio amico francese Felix Guattari che mi ha insegnato a non separarmi mai da nulla. Non scappare dalle cose, non scappare dalle case, non scambiare l'arredamento di casa, anzi, intensificare. Aveva ragione Felix, a poco a poco accadde che acquistai un compagno diverso che non c'è più ma è sempre presente».
Per reagire a questo lei occupa della Fondazione Pasolini?
«L'ho fatta nascere e non c'è stato momento in cui non l'abbia mandata avanti con tanti altri amici. Però nel frattempo ho fatto anche settantaquattro film. Adesso ne farò un settantacinquesino con Francesca Archibugi e poi forse un settantaseiesimo». Su cosa lo farà?
«Anche le nonne hanno diritto all'opera prima. A Venezia abbiamo avuto grande successo, ma non hanno voluto darmi il premio di cento milioni per l'autore di un'opera prima, perché non sono giovane e quindi non può essere un'opera prima».
Il prossimo film cos'è?
«Voglio fare una seconda opera prima».
Chi lo produrrà?
«Sono indecisa sui produttori. Sono capricciosissima, questo si, quello no, poi alla fine vedrò che film fare».
Che tipo di opera sarà?
«Un po' complicato. Ci sarà molto sangue. Ogni cosa che accade ha come conseguenza il sangue».
La guerra?
«La guerra è sangue. Il sangue vuol dire tante cose. C è una storia enorme intorno. Però certo non basta per un film di un'ora e mezza. Non mi piace la guerra e nemmeno tante altre cose. I giovani non sono mai stati così innocenti come oggi. Si parla di loro in modo snob. Sono rimasta sconvolta: i giovani non sanno chi è per esempio Pierpaolo Pasolini, non lo conoscono, non lo hanno mai visto, non ne hanno sentito parlare, però per vedere questo film che ho fatto a Venezia hanno fatto code pazzesche, anche aRoma, giovani di 17-18 anni».
Cos'è che li spinge, il mito di un poeta?
«No, non sapevano che era poeta e l'ascolto di quello che Pierpaolo dice. Il fascino che hanno le parole con il volto vicino. Sono tutte le cose che ossessionano i ragazzi. Non è vero dire che i ragazzi non pensano».
Come mai tanta passione per far vivere Pasolini?
«Non ho mai dimenticato né perdonato un assassinio che è passato, in fondo, come una cosa normale... Intorno al tavolo di casa mia si sono seduti Pasolini, Moravia, Bertolucci, Siciliano, Raboni... ora c'è ancora qualcuno come Berardinelli o Walter Siti, lo stesso Bertolucci o Siciliano, ma certo non si può non sapere che quegli anni sono irripetibili».
Perché?
«Moravia diceva: "Possono passere centinaia di anni prima che se ne faccia un altro come Pasolini. Non ci sarà più una generosità, un coraggio di quel genere". Allora e normale che io lo ami ancora, è la persona che ho amato di più e che ha marcato di più la mia personalità che già ne avevo abbastanza. Però ho capito quando è stato assassinato che non avrei mai potuto lasciarlo da solo».
Come l'ha capito?
«Non lo so, l'ho capito. Mi ricordo a Campo dei Fiori mentre parlava Moravia al funerale di Pierpaolo ebbi uno spintone e mi trovai a pancia in già sulla bara di Pierpaolo e mi vidi in primo piano davanti Ugo Tognazzi! Capii fin dai primi giorni cose che solo le fattucchiere o le sante pazze fanno. Così mi chiamava anche Pierpaolo, si sa dove uno va a finire. Ho pensato che lui non doveva rimanere solo».
Dove vivevate voi due?
«Tra lui e me c'era una convenzione, di giorno lui stava a casa sua all'Eur, di sera veniva da me. O si mangiava qua, e io ho dovuto imparare in fretta a far da mangiare con i pochi intimi che venivano, insomma la famiglia tipo Moravia eccetera o si scendeva alla Carbonara, un ristorante di Campo dei Fiori. In ogni modo lui verso le 10,30-11 se ne andava nella notte».
Com'era Pierpaolo Pasolini?
«Era molto carino, con lui si rideva dalla mattina alla sera, anzi voleva che si ridesse sempre, con me, con Ninetto, non ne parliamo quando poi arrivò Totò, ci fece ridere tutti. Lui era un personaggio tragico, in qualche modo lo era anche Moravia».
Però la vita va avanti?
«No, ma si fanno altre cose. Bisogna creare molto, inventare, curare e creare rapporti nuovi. Vorrei riprendere il lavoro della Fondazione Pasolini che non so ancora dove va perché non abbiamo danaro. Dicono che andrà al Comune, ma ci vorrebbe uno sponsor con molti soldi».
Ha dei rimpianti?
«Forse era meglio se andavo a vivere in Francia, dovè le amicizie sono più solide. Ma l'Italia è un paese così bello, non si può dividere l'uomo dai momunenti. Forse Roma non è il luogo adatto, ma se vai nelle Marche, per esempio, trovi un rapporto straordinario con le persone».
Laura Betti. Nel nome di Pasolini. Ora no scappo più. Un'intervista di Alain Elkann, La Stampa 4 novembre 2001, p.16.
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