In un intervista concessa venerdì scorso al supplemento letterario de Le Monde, Pier Paolo Pasolini, parlando del suo volume "Trasumanar e organizzar", di prossima pubblicazione, ha detto fra l'altro:
"Non posso più credere alla rivoluzione, ma non posso non stare dalla parte dei giovani che si battono per essa. È già un'illusione scrivere poesia, eppure continuo a scriverne, pure se la poesia non è più per me quel meraviglioso mito classico che la esaltato la mia adolescenza...Non credo più nella dialettica e nella contraddizione, ma alle pure opposizioni...Tuttavia sono sempre più affascinato da quell'alleanza esemplare che si compie nei grandi santi, come san Paolo, tra vita attiva e vita contemplativa".
Pier Paolo Pasolini nella prima del "Decameron" al Festival Internacionale di Berlino (1971) © Ullstein Bild/Riproduzione riservata
Con una sottile abilità che non gli è affatto ignota, Pasolini ha disposto, in questo modo, le carte che vorrà veder giocare una volta che il suo libro abbia raggiunto le librerie. Solo che abilità non vuol dire sempre appropriatezza.
Pasolini rifiuterebbe gli strumenti del pensiero marxista, come la dialettica, e accoglierebbe quei concetti nuovi che i teorici della contestazione hanno approntato, l'opposizione pure ad esempio. Non si sottrarrebbe alle lusinghe della nozione della morte della poesia e dell'arte però insieme dichiara che un poeta non può tradire o abbandonare la sua intima necessità di scrivere.
Ma ad osservare più da vicino le cose, alla rivoluzione, Pasolini ha mai guardato come a qualcosa di diverso da un mito o una sollecitazione limite alla poesia? E la sua radice cattolica gli ha mai consentito di intendere appieno una concezione dialettica,, intendo dire laica, della vita? Dunque, per quale verso prendere questa complessa rete di agganci che nell'intervista egli ha voluto lanciare?
Molte delle poesie che fanno parte del suo nuovo volume le conosciamo già, le abbiamo lette in riviste, talvolta anche su rotocalchi, come avvenne per quella in cui ai giovani studenti venivano contrapposti i giovani poliziotti. L'impressione complessiva, allora, fu che Pasolini conduceva d'istinto una polemica spietata, con i modi d'una poesia aperta al diario e al giornale personale, verso l'anticultura che ha caratterizzato globalmente il mondo della contestazione giovanile. Ne coglieva, a scorno di tanti, il carattere regressivo, o per usare un termine di gergo "controrivoluzionario". Leggendo quei versi si poteva discutere dell'accentuata visceralità che li tingeva, o delle soluzioni populistiche che vi erano prospettate, e che caratterizzano Pasolini fin dagli anni di "Le ceneri di Gramsci".
Ecco invece oggi, quasi a rescindere le proprie responsabilità creative da quelle dell'uomo che parla dei propri libri e li pone in una prospettiva in cui vorrebbe essi fossero, Pasolini fa professione di ambiguità. Ci chiediamo: quale bisogno egli ha di angolare l'eclissi che in lui subisce la suggestione marxista con stratagemmi tipici degli adulti che non vogliono perdere l'ultimo tram?
"Le rivoluzioni di Pasolini" 5 marzo 1971. © Enzo Siciliano
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