Silvana Mangano durante le riprese di Edipo re (1967) © Archivi Farabola/Riproduzione riservata
Cara Silvana,
è tanto che ti devo una lettera. Una lettera, se non un «mazzo di magnifiche rose». Invece di scrivertela privatamente, te la scrivo pubblicamente. Ciò pone dei limiti alla confidenza e all'affetto; ma le conferisce, forse, un maggior valore.
È una lettera piena di amarezza. Un’amarezza confusa e imprecisabile – un disgusto leggero e immenso: che però non ti voglio comunicare. Si tratta forse del processo a « Teorema», che la gente crede sia per me un fatto di comune amministrazione, preventivato e giocato come in una specie di scommessa con la vita: e invece è un avvenimento drammatico. Se così non fosse mi sarebbe troppo facile (la mia lotta). Se non ci fosse in me – ineliminabile, coagulato nei giorni infantili – un conformismo che produce drammi, sarebbe troppo facile il mio anti-conformismo.
Non ti pare?
Nell’amarezza che provo (e che mi investe tutto, dall’alto al profondo) nello scriverti questa lettera, ha un ruolo importante la sensazione che il tuo lavoro con me non ti abbia dato la soddisfazione, che io speravo. (Tu, infinitamente più «amara» e più saggia di me, non avevi queste speranze, lo so). Ma, tuttavia, la spinta a scriverti questa lettera me l’ha data un viaggio di due giorni a Parigi (sempre per «Teorema»): dove, al «Dragon» stavano dando in prima visione per la Francia, l’ «Edipo Re»: è un grande successo – come si dice trionfalmente, tirando un sospiro – di «pubblico» e di «critica». Vorrei riportarti i brani in cui i critici parigini parlano di te. La soddisfazione (che tu non vuoi avere) sarebbe veramente grande.
Ma torniamo alla nostra amarezza (di cui la soddisfazione parigina non è che una contraddittoria conferma). Amarezza, come stato diffuso e non realizzato di nevrosi. Nevrosi, come conflitto di conformismo e di anticonformismo. Di paura e di coraggio. Di grazia e d’impotenza. In modo così diverso, così profondamente diverso, ambedue ne siamo vittime. Forse su questa amarezza — che ci consente di lavorare con grande animo e con poca speranza direi… stoicamente — si fonda la nostra collaborazione così magicamente solidale. Siamo ugualmente puntuali e ligi come ragazzini bravi a scuola, non è vero?, e abbiamo un ben radicato senso del nostro dovere: non mancheremmo mai alla nostra parola… Non mi era difficile ‘contemplare’ tutti questi aspetti della tua natura – puntualità, senso del dovere, lealtà – mentre lavoravamo insieme, nel Marocco, a Roma, a Milano. Ed è tutto questo, strano a dirsi, che produce il mistero della tua bellezza. La tua bellezza amara: che si offre, incombente, come una teofania, uno splendore di perla; mentre in realtà, tu sei lontana. Appari dove si crede, si lavora, ci si dà da fare: ma sei dove non si crede, non si lavora, non ci si dà da fare. Richiamata qua da un obbligo che (chissà perché) si ha vivendo, resta la realtà della tua lontananza, come una lastra di vetro fra te e il mondo. Senza che ce lo siamo mai detto (dato il selvaggio pudore) la mia anima era spesso con te, dietro quel vetro.
Quando Dioniso è arrivato a Tebe, sotto le spoglie di un bel ragazzo mortale, coi capelli lunghi (tanto che, anche allora, Pènteo avrebbe voluto tagliarglieli), aveva l’aria piena di grazia, di allegria, di pigrizia giovanile (quando si è giovani si ha tanto tempo davanti che non si ha paura di buttarne via). Piano piano quella sua presenza realmente felice, forma di liberazione (Tiresia dirà: «Non sarà certo Dionisio a volere – le donne caste: ma virtù non nasce – che da natura. E tu rifletti a questo: – se donna è casta, anche nell’orgia bacchica – non si corrompe…»), si rivela come una presenza spaventosa, forma di distruzione. «Dionisio è dio – tra i numi il più benigno e il più tremendo»: dice lui stesso di sé.
Egli è venuto in forma umana a Tebe per portare amore (ma, mica quello sentimentale e benedetto dalle convenzioni!) e invece porta il dissesto e la carneficina. Egli è l’irrazionalità che cangia, insensibilmente e nella più suprema indifferenza, dalla dolcezza all’orrore. Attraverso essa non c’è soluzione di continuità tra Dio e Diavolo, tra il bene e il male (Dionisio si trasforma, appunto, insensibilmente e nella più suprema indifferenza, dal giovane pieno di grazia che era al suo primo apparire in un giovane amorale e criminale). Sia come apparizione «benigna» che come apparizione «maledetta», la società, fondata sulla ragione e sul buon senso – che sono il contrario di Dionisio, cioè dell’irrazionalità – non lo comprende. Ma è la sua stessa incomprensione di questa irrazionalità che lo porta irrazionalmente alla rovina (alla più orrenda carneficina mai descritta in un’opera d’arte). Sono gli I.M., per citare Elsa Morante, gli Infelici Molti, ossia la maggioranza, o la media, fondata sulla razionalità e il buon senso, che non comprendono la grazia di Dionisio, la sua libertà, e perciò finiscono atrocemente nella strage: di cui peraltro la irrazionalità stessa è patrona. Quanti Pèntei, nella nostra società, cara Silvana: che prima vogliono tagliare i capelli lunghi al giovane Dio che compare loro e che essi non vogliono riconoscere, e poi finiscono con l’andare a spiare le Menadi, vestiti da donna, e con l’essere dilaniati un una carneficina orrenda (Auschwitz, Vietnam, Biafra… ndr e chissà se fosse ancora vivo, come continuerebbe il suo elenco fino a Gaza, la Libia, la Siria etc).
I Pèntei italiani sono dei mediocri, dei meschini imbecilli, neanche degni di essere dilaniati dalle Menadi. (Del resto, per quanto li riguarda, basta rileggere la canzone di Elsa Morante che ho già citato: basta, insomma, alla loro infelicità appartenere alla categoria degli «Infelici Molti»!)
Per tornare a noi due, noi abbiamo riconosciuto Dionisio: ma con paura, una paura nata nel mondo degli Infelici Molti. E ciò ci dà quell’amarezza, che corregge e rende ambigua la felicità che abbiamo capito: rinuncia o impegno, sono droghe con cui cerchiamo di riempire il vuoto lasciato da quella metà di felicità che non siamo in grado di godere. Da ciò la tua nevrotica indifferenza per le cose, da ciò la mia angoscia per avvenimenti come il mio processo ecc. Ma insomma, con l’aiuto di Dionisio, speriamo di lavorare insieme ancora. E di avere, insieme, quelle soddisfazioni di cui non abbiamo speranza, e che passano fulminee, pure o semplici opposizioni, rivelatrici, alla nostra amarezza.
Pier Paolo Pasolini in Tempo Illustrato, 16 novembre 1968
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