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Maria Callas e Pier Paolo Pasolini: l'anello. Un testo di Giuseppe Zigaina


Pier Paolo Pasolini e Maria Callas a Grado (dietro anche Ninetto Davoli), 1969. Dante Turco © Archivio Comune di Grado/Riproduzione riservata

La storia era cominciata così.


Quando la lavorazione di Medea era già ben avviata con il favore di un tempo meraviglioso, Pier Paolo, evidentemente soddisfatto e in un certo senso riconoscente a quella ignara creatura mi disse che avrebbe voluto regalare a Maria un oggetto che avesse potuto ricordarle le ore trascorse assieme, e i luoghi, soprattutto: stupendamente primitivi – come lei diceva – e ricchi di storia.


A due passi da una antica città romana, pensai subito a qualcosa di rappresentativo e nobile allo stesso tempo. Un oggetto unico che per la dimensione e la semplicità potesse essere portato come un gioiello.


Succede spesso ad Aquileia, dopo la pioggia, di vedere degli uomini che vagano per i campi a testa bassa come melanconici beneandanti. Sono i cercatori di corniole. I sepolcreti sono stati sconvolti per secoli dagli aratri, e tutto è ormai ridoto a un terriccio particolare – fertilissimo immagino – costituito, oltre che dall’argilla originaria, da piccoli cocci di anfore, per lo più, o da indecifrabili frammenti di marmo. Due millenni hanno ridotto in cenere ogni altro resto dell’uomo. Tranne le corniole, appunto, le pietre dure e incise che gli acquazzoni riportano allo splendore di un tempo. Era fatale dunque che per quel dono così importante io pensassi a una corniola. E ne trovai una, non da beneandante, ma da esperto conoscitore. Vi era incisa una divinità: Giove, forse, o Mercurio. E il trono, o il semplice sgabello, in cui sedeva il dio, era descritto nei più minuti particolari. Per dire, ad esempio, che i suoi calzari – questa la divina libertà dell’artista – apparivano, sotto la lente, negligentemente slacciati. La feci vedere a Pier Paolo, e ne fu entusiasta. Suggerii naturalmente di farla incastonare in un anello all’uso romano, e scelsi un orafo rinomato per i suoi raffinati restauri. Non restava che creare l’occasione per donare la gemma a Maria.


Avevo già in mente di invitare a casa mia tutti quelli che avevano collaborato alla lavorazione del film, i giornalisti che avevano seguito le riprese e la troupe al completo. Ma il vero, riconosciuto motivo di quella cena all’aperto era quello di festeggiare Maria. Festeggiarla e dimostrarle simbolicamente il nostro affetto.


Con un gran fuoco al centro del prato, le carni arrostite e il vino che scorreva dalle botti, la serata acquistò il giusto calore. E fu al culmine di quell’incontro, quando la luna – mi ricordo – apparve sul bosco di acacie, che Pier Paolo con la timidezza di sempre porse l’anello a «Medea». Ci fu un abbraccio e un bacio, com’era doveroso in queste occasioni. Ci furono anche degli applausi, ma non tutti seguirono con gli occhi o colsero col sentimento quell’ingenuo e tenero rituale.


Sotto il sole di luglio passarono ancora giorni scanditi dal vento di levante. Solo le divinità, Mercurio o Giove, si tenevano dentro «quel loro sapere tragico».


Oggi, solo oggi, dopo aver assistito per altri vent’anni al lavoro stagionale degli aratri, rileggo per riempire un vuoto…


«Da dove il vento, che inanellata pria / viene, e

dove finirà – / contro esso ergiamo – di comune

accordo tacendolo / fisicità colme di dolore, abbandonate

sul mare; / la gemma che disposa!

[…] / senza temperatura esso inanella

corpi e cose e li abbandona, / intento a raggiungere

con complicità / quei luoghi che alla

vita son tolti; / e la vita ne è svuotata; / l’affetto

si veste di sentimenti non suoi; / gli occhi

guardano l’invisibile gemma che scorre».


Il segreto tragico degli dei era racchiuso proprio nelle parole di questa poesia, L’anello. L’anello che incastonava la «gemma» che con la mia complicità obiettiva Pier Paolo aveva regalato a una donna che gli ispirava struggente tenerezza. E da cui era sicuramente amato. Sennonché una «complicità ipocrita» in cui le parole non dette si fingevano come non conosciute hanno impedito a entrambi di dare realtà alla realtà. Così lei, «col sorriso beato della finta sicurezza e le mani strette sulle ginocchia come le bambine che nascondono il tremore dietro una furba finta spigliatezza », ha ingannato se stessa. Sul molo dell’isola greca, dove quei versi furono scritti o concepiti, ha vinto il silenzio e il vento dell’Egeo. Ma soprattutto la Verità indicibile. L’amore, in quel momento (o il bisogno di essere altri, o la naturalezza che si espande oltre i confini del giusto), avrebbe sconfitto perfino la morte. Ma sarebbe stata anche «la resa di fronte all’impossibile; lo scacco infinito e miserabile; la degradante fatalità».


Tutto ciò «si proiettava nel vento che scorreva come una gemma che non sposa e non scioglie». Così, tragicamente, ha vinto un affetto travestito di sentimenti non suoi. E ritrovo Un affetto e la vita.


«In ogni amore c’è sempre una fusione tra la persona

che si ama / e qualcun altro: ma ciò è naturale.

Nell’affetto / ciò sembra invece così innaturale:

/ la fusione avviene a tale profondità / che

non è possibile darne spiegazioni, tranne motivi

/ per congratularsi, comunque essa sia, della propria

sorte. / La tenerezza che tale affetto impone

/ al profondo, non conduce né a fecondare / né a

essere fecondati, anche se per gioco; / eppure si

soccombe ad esso / con lo stesso senso di precipitare

nel vuoto / che si prova gettando il seme,

quando si muore / e si diventa padri».


Se è un affetto più forte di qualsiasi amore, un affetto che d’altra parte non conduce né a fecondare né a essere fecondati, vuol dire che pur indossando i sentimenti dell’amore ne è profondamente diverso. Un affetto, comunque, che non avendo come oggetto un’altra persona è sinonimo di affezione o di passione o di impulso; e che dunque in una maggiore generalità e estensione «designa ogni stato, condizione o qualità che consiste nel subire un’azione o nell’essere influenzato o modificato da essa». Riapro l’Etica alla parte quarta: «La schiavitù umana, ossia le forze degli affetti». «Chiamiamo schiavitù l’impotenza umana a dominare e impedire gli affetti; poiché l’uomo soggetto agli affetti non appartiene a se stesso ma alla fortuna». Ma gli affetti in quanto emozioni o «passiones » costituiscono l’impotenza dell’anima solo fino a quando noi ne prendiamo fermamente coscienza. «In tal caso l’anima li vince trasformandoli in idee chiare e distinte». Quando l’affetto assume la sostanza, non solo l’aspetto, di una idea chiara e distinta, ci lega, ci impedisce di avere altri affetti. In Pier Paolo la «passione» ossia la sua irrefrenabile pulsione, in quanto idea (di morte) chiara e distinta, si è fatta «azione» ossia lucido progetto. Tuttavia, in quelle giornate di agosto nel mare dell’Egeo ci fu una distrazione, un’illusione, oppure un sogno dentro un sogno. Come la richiesta di una seconda istanza, o di una domanda di grazia. E «i sensi amarono ciò che amare altro non significava che dimenticare e nascondere». Poi, a chiarire l’enigma, arrivò la prefigurazione mitica di una tragedia «finalmente tragica». Richiudo la cartella pensando a Julian, il protagonista di Porcile: «Mai affetto fu più forte di

questo che mi attrae tra questi porci…». La velina ormai non serve più. Ho bisogno di uscire. Faccio due passi sul prato appena tagliato. Raccolgo una pigna che il picchio ha sfogliato come una margherita. Eppure era compatta come un ordigno.


Giuseppe Zigaina, Verso la laguna, Marsilio, Venezia 1995, pp. 153-166.
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