Pier Paolo Pasolini nella sua scrivania, Roma (1962) © Città Pasolini/Riproduzione riservata
È vero che il mio primo libro, uscito nel '42, è stato un libro di poesie. Ed è anche vero che ho cominciato a scrivere poesie a sette anni di età, in seconda elementare (ho sotto gli occhi, lucido, quel quadernetto a righe, con la mia mano che scrive i primi veri - parole "elette", per stile sublimis: verzura, rosignolo...), ma, chissà perché, quando penso, indistintamente, agli inizi della mia carriera letteraria, penso a me come a uno che "proviene dalla critica". Forse perché agli albori degli anni Quaranta, appunto, il mio maggiore entusiasmo - che del resto era poetico lo dedicavo agli studi di filologia romanza e alla storia dell'arte (la memorabile serie di lezioni di Roberto Longhi su Masaccio).
È perciò che continuo a considerare i critici come dei colleghi, alcuni seniores, alcuni juniores (...). Come scrittore, sono incondizionatamente grato alla critica italiana; sono sempre stato veramente letto, spesso con passione, con intensità analitica. È questo uno dei pochi lati buoni della mia vita-letteratura, della mia letteratura-vita. Ci sono delle eccezioni: ma devo dire immodestamente la verità, si tratta sempre di critici magari abbastanza ufficiali, ma privi di reale considerazione nel migliore mondo letterario; oppure di giovani poco chiari; oppure, infine, di giornalisti, non di critici; sono i giornalisti divulgatori a pagamento che hanno portato molta confusione sulla valutazione del mio lavoro, creando dei contrasti critici, che, in realtà, non ci sono. I contrasti sono solo, e interessatamente, politici.
Questo è il mio punto di vista di scrittore, ossia di corpo vile. E mi scuso se il corpo vile è stato, in questo refertino, un po' troppo corporale, ossia privato.
Come collega, ossia come critico, sono in parte simpatetico; in parte polemico, ma polemico fino a un distacco definitivo e irreversibile, con la critica coeva. Perché al critico fin troppo appassionato, si mescola in me, come direbbe un meridionale (Uèh carissimo!), l'ideologo. E la mia lotta ideologica si è svolta tutta contro l'ermetismo e il novecentismo, sotto il segno di Gramsci. Perciò ho accusato i miei contemporanei di esercitare una critica di gusto, di comunicazione estetica, per élites: quasi che gli oggetti della critica fossero dei mostri, dei casi di umanità vulcanica, privilegiata nelle innovazioni linguistiche che dovute ad angoscia o felicità incomunicanti. Ho accusato i miei contemporanei di moralismo (i liberali) e di estetismo (i cattolici), ambedue, moralismo e estetismo, presupponenti un mondo immutabile (figurarsi l'Italia!), definitivo, concentrico, dove avesse reale valore una sola cultura; quella della classe dominante, cui i letterati flebilmente appartengono, anarchici o servi, angosciati o sciovinisti, conformisti o scapigliati, aperti (i cattolici estetizzanti) o chiusi (i cattolici estetizzanti, anche loro antifascisti).
Ora sta nascendo un nuovo tipo di critica: quello presupposto dal neocapitalismo per le masse consumatrici. Sarà divertente vedere la critica farsi più chiara e accessibile e imporre alle masse quello che le masse sono presupposte imporre. In questo giro di cultura aprioristica e preordinata i critici si ridurranno ad essere degli inventori di slogans.
Pier Paolo Pasolini. "L'Illustrazione Italiana" (1962) © “L’Espresso” (1988)
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