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Immagine del redattoreCittà Pasolini

Pier Paolo Pasolini 'Il mio sacro è qui' Un testo del 1970.


“Non appartengo a una corrente, se non in maniera molto vaga. Io non sono un professionista del cinema e quindi non ho fatto il noviziato, non ho fatto l’apprendistato, non ho avuto dei maestri, non mi sono inserito in una corrente, appunto. Sono venuto completamente da un altro campo e quindi ho agito in maniera abbastanza irregolare.

Però avevo su di me una costellazione di nomi: prima di tutto direi Charlot, seguito, ma in qualche cosa direi anche superato, da Buster Keaton. L’altra costellazione è quella di Dreyer, direi anzi che è la più importante di tutte. E poi una assolutamente dissueta per un regista italiano, cioè il regista giapponese Mizogouchi.

Non so se questi formano una corrente, comunque hanno formato, almeno per linee esterne, quella struttura e quel modo stilistico che mi è tipico. Sia in Charlot, che in Keaton, che in Dreyer e forse Mizogouchi, perché Mizogouchi non l’ho mai studiato bene in moviola, mancano i tipici piani-sequenza che sono invece la caratteristica principale del neorealismo.


1. Uccellacci e uccellini. Pier Paolo Pasolini (1966) 2. The cowboy. Buster Keaton (1925) © SZ Photo

Ecco perché è contraddittoria la mia posizione, perché fatalmente io non potevo non venir fuori che dal neorealismo. Ho cominciato ad operare in pieno clima neorealistico, benché al suo declino, e quindi fatalmente non potevo che appartenerci. Però poi, dal momento in cui ho cominciato a fare del cinema io stesso, ho cominciato a fare del cinema che contraddice in pieno il neorealismo, stilisticamente. I miei film li potrei i definire con la caratteristica negativa, cioè nei miei film mancano i piani-sequenza. Ora, siccome i piani-sequenza sono l’elemento stilistico tipico dei neorealismo, questo mi fa dedurre che io sia fuori dal neorealismo dal punto di vista stilistico.

Dal punto di vista dei contenuti e delle problematiche evidentemente succede qualcosa di analogo. Voi avete visto come in Accattone c’è quel tanto di denuncia sociale tipica del neorealismo. Anzi, direi che dal punto di vista del contenuto è l’elemento più tipico del neorealismo e quindi, in certo modo, Accattone vi appartiene. Però, stilisticamente, non ha nulla a che fare né con Ladri di biciclette, né con altri film che hanno caratterizzato quel periodo. Quindi concluderei dicendo che la mia corrente, come contenuti, almeno originariamente parte dal neorealismo, contraddicendolo però dal punto di vista formale. Quindi ho creato un modo di fare il cinema che è un po’ fuori dal quadro tipico, comune, corrente del cinema italiano, che è abbastanza personale. E questa direi è la qualità e il limite del mio cinema (…).

La questione della trascendenza

Al cinema la realtà si esprime attraverso la realtà. Noi abbiamo un codice attraverso cui decodifichiamo la realtà. Ora questo codice è lo stesso che ci permette di decodificare le immagini riprodotte della realtà, cioè del cinema. Questo significa che il codice del cinema e della realtà sono sostanzialmente identici. Allora, poiché il cinema è un linguaggio, anche la realtà è un linguaggio. Il linguaggio di chi? A questo punto interviene il pensiero del trascendente.

Per voi la realtà sono tutti segni che io posso analizzare semiologicamente, segni che mi raccontano, mi dicono qualcosa. Per voi cattolici, ecco Iddio, cioè il Trascendente, che parla attraverso la realtà, cioè la realtà non è altro che il sistema dei segni di Dio. Ora per me, che non sono credente, devo ricorrere a una specie, diciamo così, di ontologia: la realtà è il complesso di segni attraverso cui la realtà si esprime. Cioè la mia visione del mondo, anche se sacrale e religiosa, è di tipo immanentistico. Allora se voi volete far coincidere la vostra trascendenza con questa mia idea sacrale immanentistica, questa componente è la componente tipica di tutti i miei film, da Accattone a Porcile (…).

Il film su San Paolo

Ora anche per il San Paolo quello che mi ha spinto, dopo tanti anni che ci pensavo, a fare il film è stata un’idea formale, però, intendetemi bene, non è mai formalistica, non è mai stereotipa. Cioè l’idea di vedere due san Paolo: uno, il santo, l’uomo rapito al terzo cielo, e l’altro, l’uomo debole. Ecco, dal momento che mi è balenata in testa l’idea poetica che di san Paolo ce ne sono due, da quel momento mi è venuto in mente tutto il film. C’è tutto un lato umano con grandi qualità e anche grandi difetti che si contrappone al santo. Tutto il mio film è basato su questa dicotomia tra santità rappresentabile e umanità con tutti i suoi difetti (…).

Le cose ultime

Dove si va, dove si andrà è un problema che non mi pongo, perché è in qualche modo ricattatorio. Se fossi comunista ortodosso, direi che si va verso un mondo migliore di giustizia sociale. E con questo tacito gli operai che intanto passeranno la loro vita col loro salario. Voi cattolici dite che il futuro dell’uomo è la salvezza dell’anima, cioè rovesciate metafisicamente il problema e quindi risolverete il problema. I liberali dicono: il futuro è un futuro di benessere perché il mondo si meccanizzerà e il benessere coinvolgerà tutti quanti, la produzione sarà fatta per essere consumata e sarà l’età dell’oro. Tutti hanno un loro domani, un loro futuro carino da promettere. lo mi rifiuto di promettere un domani migliore. Il domani è oggi. Ma anche per voi cristiani l’oggi e il domani sono compresenti”.


Pier Paolo Pasolini . Intervista 1970. Pubblicata sull'Avvenire (2014)

Pier Paolo Pasolini durante le riprese di Teorema (1968) Angelo Novi © Cineteca di Bologna/Riproduzione riservata


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