Pier Paolo Pasolini nel 1961 © Archivio Riccardi/Riproduzione riservata
Ecco quei tempi ricreati dalla forza brutale delle immagini assolate: quella luce di tragedia vitale. Le pareti del processo, il prato della fucilazione: e il fantasma lontano, in cerchio, delle periferia di Roma biancheggiante in una nuda luce. Gli spari; la nostra morte, la nostra sopravvivenza: sopravvissuti vanno i ragazzi nel cerchio dei palazzi lontani nell’acre colore del mattino. E io, nella platea di oggi, ho come una serpe nei visceri, che si torce: e mille lacrime spuntano in ogni punto del mio corpo, dagli occhi ai polpastrelli delle dita, dalla radice dei capelli al petto: un pianto smisurato perché sgorga prima d’essere capito, precedente quasi al dolore. Non so perché‚ trafitto da tante lacrime sogguardo quel gruppo di ragazzi allontanarsi nell’acre luce di una Roma ignota, la Roma appena affiorata dalla morte, superstite con tutta la stupenda gioia di biancheggiare nella luce: piena del suo immediato destino d’un dopoguerra epico, degli anni brevi e degni d’un intera esistenza. Li vedo allontanarsi: ed è ben chiaro che, adolescenti, prendono la strada della speranza, in mezzo alle macerie assorbite da un biancore ch’è vita quasi sessuale, sacra nelle sue miserie. E il loro allontanarsi nella luce mi fa ora raggricciare di pianto: perché? Perché non c’era luce nel loro futuro. Perché c’era questo stanco ricadere, questa oscurità Sono adulti, ora: hanno vissuto quel loro sgomentante dopoguerra di corruzione assorbita dalla luce, e sono intorno a me, poveri uomini a cui ogni martirio è stato inutile, servi del tempo, in questi giorni in cui si desta il doloroso stupore di sapere che tutta quella luce, per cui vivemmo, fu soltanto un sogno ingiustificato, inoggettivo, fonte ora di solitarie, vergognose lacrime.
Pier Paolo Pasolini Lacrime in La religione del mio tempo (1961) VI. Un’educazione sentimentale – La resistenza e la sua luce – Lacrime)
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