Pier Paolo Pasolini nella sua casa di via Carini, quartiere Monteverde, Roma primi anni ’60 © Ezio Vitale/Tutti i diritti riservati
Gentile professore...
Comincia così, in forma di lettera, uno degli scritti più inattesi di Pier Paolo Pasolini. È una dedica che occupa il primo foglio e il verso del volume Poesie a Casarsa, pubblicato a Bologna nel 1942 dalla Libreria antiquaria Mario Landi. A leggerla, si rivela una vera e propria dichiarazione di poetica.
Per la prima volta Pasolini, presentandosi come poeta e sottolineando l'immaturità della propria creazione, confessa la propria ambizione al tempo che teme l'impurità del proprio lavoro poetico.
Ecco perché scrive tremando, ecco perché vorrebbe giungere alla suprema conquista per cui ogni parola sia l'unica, e ogni frase l'unica.
Riproduciamo qui la lettera scritta da Pasolini e rimasta inedita fino al 16 giugno 1999, data in cui venne pubblicata su La Stampa:
Gentile professore, ecco il libretto, forse non tipograficamente bello come a voi sarebbe piaciuto, ma in compenso modesto e schivo.
Questo giorno ch'io credevo eccezionale, non è stato nemmeno triste, ma già sento gli indizi di giorni memorabili.
Ormai quando il mio carissimo seme è partito, era cominciata pe me una tensione estrema di meditazioni e approfondimenti, causata dalla netta coscienza di immaturità delle mie poesie in italiano. Avrei bisogno che qualcuno me le denudasse, senza pudore, me ne mostrasse l'inutilità. Io odio la parola come ricerca chiusa in sé: la sofferenza della ricerca verbale è in fondo la sofferenza che comporta ogni chiarimento o approfondimento di una posizione morale. Al contrario, sviluppando le mie poesie, ho visto che la "posizione morale" non sconfinava i limiti di una malinconia o di una volontà di poesia, riducendosi quasi pienamente, ad una ricerca estetica. Forse anche questa nuova interpretazione delle mie poesie è parziale o falsata: ma ancora una volta sono tornato a un passo che, posso dire, scandisce la mia esistenza. Un desiderio estremo, voglio dire, di liberarmi di ogni zavorra, sentirmi libero e infinitamente solo, abbandonare la vita, il mio polso vivo, la sua vile allegrezza, e chiudermi tutto nel cerchio del mio dolore, che, della mia esistenza, è l'unica cosa vera e accertata. Tutto il resto è in più, distrae e fa rimandare, rende indolenti, o tuttalpiù, malinconici. Io devo confessare che sono molto ambizioso, che amo cioè veramente la gloria. Chi, oggi, ha il coraggio di dire questo? Può essere puerile, ma è sincero e, soprattutto, sofferto. Essendo, così, giunto, ad una concezione altissima della poesia (per cui è peccato di impurità trattarlo da dilettanti o da "malinconici") mi sento misero e sperduto davanti ad essa, e non osso più toccare la penna. Oppure scrivo tremando, e cerco che ogni parola sia l'unica , ed ogni frase l'unica: ed infine rido piangendo su quello che ho scritto. Lo so che non è condizione per scrivere poesia, questa! Andrò a Casarsa, domani, e là, forse, ritroverò la mia vecchia ispirazione, che in fondo, è lietezza. Ma quante sofferenze e quanti dolenti equivoci, per giungere all'uomo lieto. Voi mi sembrate giunto ad uno stadio di strema ed esemplare saggezza, una sorta di atarassia, che io credo la stagione più lieta dell'esistenza. Vi saluto con affetto.
Pier Paolo
Casarsa (Udine)
Pier Paolo Pasolini. Sogno soltanto la gloria, in La Stampa, 16 giugno 1999, p.25.
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