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Immagine del redattoreCittà Pasolini

Pasolini. Warhol. 1975. Un saggio di Alessandro Del Puppo. Mimesis Edizioni (2019)

Aggiornamento: 26 ott 2022





PASOLINI WARHOL 1975


1.


Nell’estate del 1975 Pier Paolo Pasolini accettò di scrivere una breve presentazione per Ladies and Gentlemen, una serie di ritratti che Andy Warhol aveva dedicato ai travestiti newyorkesi. Il testo fu uno degli ultimi scritti da Pasolini e risultò tra le sue prime pubblicazioni postume. Comparve infatti nel catalogo di una mostra milanese nel maggio 1976. Questa mostra faceva seguito all’anteprima mondiale della serie, una grande esposizione tenuta a Ferrara fra l’ottobre e il dicembre 1975.


Il testo di Pasolini non è importante solo perché, presumibilmente, fu l’ultimo saggio che egli scrisse. È importante soprattutto perché il testo è stato tra i pochi interventi che il poeta volle dedicare, negli ultimi suoi anni di attività, all’arte a lui contemporanea.


Si trattava, in effetti, di un segmento piuttosto avulso dagli interessi di quel periodo. Non erano naturalmente mancati interventi sulle arti visive, in continuità con i ben noti interessi figurativi maturati sin dalle lezioni longhiane all’Università di Bologna. Un ragionamento sui disegni di Renato Guttuso, un intervento sul pittore friulano Giuseppe Zigaina, una presentazione per Carlo Levi e qualcos’altro: testi estemporanei, che confermavano il persistente interesse per un realismo ancorato agli anni cinquanta e perlopiù limitato a una cerchia di pittori a lui vicini. Più rari gli affondi non privi di tratti moralistici sull’arte attuale, come ad esempio la liquidazione di Gino De Dominicis nella cause célèbre della Biennale 1972.


In questo testo cercherò di ricostruire le vicende che portarono alla realizzazione del ciclo di dipinti di Warhol e della sua presentazione a Ferrara, prima, e a Milano, poi. Proverò poi a chiarire le ragioni dell’incontro indiretto (personalmente non si conobbero mai) tra Pasolini e Warhol. Cercherò infine di discutere l’interpretazione pasoliniana di Warhol: quel che capì, quel che volle capire, e quello invece che non capì affatto.


La domanda cui vorrei infine cercare di dare risposta rovescia però il punto di osservazione: cosa poteva dire Warhol a Pasolini? E cosa poteva dirgli, nella brusca accelerazione del lavoro di quei mesi, tra la preparazione degli Scritti corsari e il montaggio finale di Salò o le 120 giornate di Sodoma?


2.


All’apparenza, i nomi di Pasolini e Warhol sono un’endiadi difficilmente componibile.


Warhol pareva il più intonato cantore della società dei consumi e del neocapitalismo. Pasolini si stava imponendo come il più accanito e addolorato denunciatore del “genocidio culturale” così prodotto.


Pasolini aveva interpretato il mutamento antropologico degli italiani in ragione d’un vituperato consumismo, e la società dei consumi come un prodotto della televisione. Ne parlò in termini di “neocapitalismo televisivo” in un’intervista del 1958, e si dichiarò contro essa nel 1966, suggerendo di abolirla. Warhol invece dichiarava, come una sorta di rediviva Virginia Woolf, di aver sempre desiderato, sopra ogni altra cosa, uno show televisivo tutto per sé.


Pasolini si scagliava contro il “potere” e il Palazzo auspicando di portare a processo tutta la Democrazia cristiana. Warhol era invece orgoglioso di cenare con Nixon alla Casa Bianca insieme allo scià, riuscendo a vendergli dei quadri. Alcuni di quelli stanno ancora oggi al museo nazionale di Teheran.


In quanto alle affinità, invece: erano pressoché coetanei (Pasolini 1922, Warhol 1928), cattolici, omosessuali. Ebbero un rapporto intenso, quando non problematico, con la madre. Warhol si distaccò da lei nel 1971, un anno prima della sua morte. Non volle andare al suo funerale, ma la gratificò di una serie di ritratti in serigrafia, postumi. Pasolini non si peritò, come sappiamo, di far indossare alla madre Susanna i panni della Vergine Maria nel Vangelo secondo Matteo.


Uno scrittore e poeta, l’altro artista, giunsero entrambi a fare del cinema. Temuti, rispettati, criticati, talora derisi, fra successo e scandalo, clamore e censura.


Soprattutto la censura. Tra i film sequestrati nel 1972 troviamo infatti I racconti di Canterbury di Pasolini, Ultimo tango a Parigi di Bertolucci (“esasperato pansessualismo fine a se stesso”) e Trash di Warhol, per il quale Pasolini aveva collaborato, insieme a Dacia Maraini, per inventare letteralmente i dialoghi italiani.


In realtà, Pasolini conosceva poco l’America: preferì viaggiare in Africa, in Medio Oriente, in India. Né dimostrò particolare trasporto per la letteratura americana. Negli Stati Uniti si recò un paio di volte e li vide a modo suo. Si compiacque di riconoscere nella militanza degli studenti marxisti qualcosa del fervore missionario di San Paolo, spingendosi a stendere un progetto per un film sul santo ambientato nella metropoli americana del 1966.


Pasolini restò sedotto dall’energia, dall’eleganza, dalla frenesia e dalla bellezza fisica dei giovani, quanto dal vissuto amaro dei poveri, degli operai e dei neri d’America. Rientrato in Italia, volle rilasciare un’intervista a Oriana Fallaci, che uscì su “L’Europeo” nel 1966 con un titolo eloquente, Un marxista a New York, e un indizio prezioso: “La notte – ricostruiva la Fallaci – scappa agli inviti e se ne va solo nelle strade più cupe di Harlem, di Greenwich Village, di Brooklyn, oppure al porto, nei bar dove non entra nemmeno la polizia, cercando l’America sporca infelice violenta che si addice ai suoi problemi, i suoi gusti, e all’albergo in Manhattan torna che è l’alba”.


Quando Pasolini mise mano al testo per commentare i travestiti ritratti da Warhol manteneva una sua idea della società americana, e la volle intrecciare all’azione culturale, straordinariamente intensa, dei suoi ultimi anni 1973, avevano costituito uno dei fenomeni più discussi della società italiana. Semplificando e reiterando pochi concetti, sfruttò a fondo la vetrina del primo giornale italiano. Partecipò a due grandi battaglie civili su aborto e divorzio, segno per lui di una svolta consumistica prima ancora che laica. Non ebbe timori a difendere, per questo, i tratti di un’Italia premoderna. Intrecciò osservazioni sul ruolo della chiesa cattolica e non poche veementi polemiche personali. Come osservò con rara concisione Franco Fortini, egli appariva come “un rousseauiano del 1770 e un decadente del 1870 in lotta con una realtà del 1970”.


La personale antropologia politica degli “scritti corsari” ebbe compimento tra il novembre 1974 e il febbraio 1975, grazie a due invettive storiche come Il romanzo delle stragi (“io so”) e Il vuoto di potere in Italia (l’“articolo delle lucciole”). Subito dopo Pasolini iniziò a girare Salò. Nell’estate 1975 il lavoro di regia e montaggio s’intrecciò con Pasolini lavorò inoltre alla Divina mimesis, consegnando il libro in ottobre (il finito di stampare è al 22 novembre), quando anche gli Scritti corsari erano in bozze. Uscirono infatti l’11 novembre, dieci giorni dopo la morte dell’autore e quindici dopo la mostra inaugurale di Ladies and Gentlemen a Ferrara. Il testo su Warhol era già pronto. Ma in quel momento, per le ragioni che ora vedremo, non lo aveva letto ancora nessuno.


3.


Da anni Warhol adocchiava il mondo della sottocultura gay e transgender newyorkese10. Nel 1971 aveva prodotto Women in Revolt, un film diretto da Paul Morrissey e “recitato” da Jackie Curtis, Candy Darling e Holly Woodlawn: tre superstar transgender della scena che era nata intorno alla Factory. Il terzetto divenne ancor più celebre grazie alla nenia di Walk on the wild side di Lou Reed contenuta nel long-playing Transformer, del 1972.


Con quello stesso titolo, tempo dopo, si allestì nella pudibonda Lucerna una mostra che per la prima volta fece il punto sull’estetica del travestitismo e del glam. Erano presenti artisti come Urs Lüthi con il ciclo di autoritratti fotografici di The Numbergirl, 1973, e poi Jürgen Klauke, Luigi Ontani, il settantenne Pierre Molinier. Il catalogo documentò il contributo stilistico delle rockstar più alla moda: David Bowie, Marc Bolan, le New York Dolls e naturalmente Mick Jagger.


Tutto, in effetti, era cominciato con i Rolling Stones. Non soltanto perché Warhol, com’è noto, aveva prestato la sua opera per una delle più belle e sconcertanti copertine di tutti i tempi, cioè Sticky fingers. Ma anche perché il disco successivo, Exile on main street (1972), pur essendo fatto di rock’n’roll anni Sessanta durante il tour mondiale di presentazione assunse una diversa indole. Non era più il tempo delle derive psichedeliche e orientaleggianti del 1969 o del singolare “odore dell’India” di Their Satanic Majesties Request.


L’arrembante estetica del glam aveva dischiuso a Mick Jagger le possibilità di un’immagine nuova. Non più il virilismo del giovane bluesman maschio che arrochisce su Cocksucker blues, bensì un’ambiguità perturbante, certo ben più aggressiva della lunare androginia di David Bowie. Ma non meno efficace. Dinanzi a queste operazioni, le note sul camp stese soltanto pochi anni prima da Susan Sontag apparivano irrimediabilmente datate.


Mother Camp, il reportage di Ester Newton frutto di un’immersione etnografica in un variopinto e caotico mondo di night club, motel e appartamenti in affitto aveva tracciato una nuova geografia simbolica della trasformazione dei ruoli sessuali e una sbalorditiva casistica di stili e codici di comportamento, non privi di un cinico humour13. L’estetica camp da possibilità era divenuta realtà. E la realtà era anche quella di un colossale business.


Finito il montaggio del film che documentava il tour mondiale di Exile, gli Stones dovettero pensare a un titolo. La scelta fu la più semplice. L’annuncio della band sul palco (“Signore e signori, ecco a voi…”) suonava un po’ show televisivo anni Cinquanta. Ma il pubblico che aveva seguito il tour lo aveva capito benissimo. Ladies and Gentlemen non annunciava soltanto gli Stones. E gli Stones, dieci anni almeno di carriera alle spalle, ne erano ora consapevoli.


Ladies and Gentlemen annunciava un nuovo decennio. Finalmente, gli anni Settanta. Quegli anni Settanta in cui Warhol, ossessionato a voler dare visibilità al jet set internazionale, puntò tra gli altri proprio sugli Stones.


Nell’estate del 1975 Warhol ritrasse Jagger con lo stesso stile impiegato per raffigurare i travestiti. L’effige comparirà sulla copertina di Love you live, il disco della tournée di quell’anno.


Il gruppo era ormai divenuto l’icona globale di una sessualità straniante e maledetta, di una trasgressione teatrale, di una spettacolare messinscena di sesso, droga, soldi e successo. Tutto quello che eccitava Warhol. E tutto quello che inorridiva Pasolini, del resto. Ma come avvenne, allora, questo loro incontro?

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