Pier Paolo Pasolini durante le riprese di "Salò", © Gideon Bachmann/Riproduzione riservata
Il 5 giugno scorso, «l’Unità» ha pubblicato in prima pagina un articolo di Gianni D’Elia dal titolo «Perché Pasolini disturba ancora?». D’Elia parlava di liquidazione «estetica» e «idolatrico-linguistica» dell’arte di Pasolini e chiamava in causa, tra gli altri critici come Sanguineti, Raboni e Mengaldo. Pier Vincenzo Mengaldo ci ha mandato una breve risposta che qui accanto pubblichiamo. Pubblichiamo anche due interventi di Filippo La Porta e di Umberto Piersanti che tornano su alcuni temi posti dall’articolo di D’Elia: dalla qualità della poesia di Pasolini, alla sua passione civile, alle sue posizioni politiche. E certamente la figura del poeta, scrittore e regista, tragicamente assassinato ventisei anni orsono suscita ancora appassionate adesioni e polemici rifiuti che il dibattito aperto su queste pagine speriamo contribuisca a far emergere e a confrontarsi.
1. Una verità contundente e capace di rivelazione. Filippo La Porta
Davvero la presenza «urtante» di Pasolini si può ridurre ad una discussione sulla qualità dei suoi versi? Va bene, a proposito della sottovalutazione «accademica» di Pasolini poeta, copertura di una insofferenza politica, si può essere d’accordo con Gianni D’Elia. Ma il problema non è soltanto quello di una riabilitazione estetica postuma o di un conflitto di gusto. Qui è in gioco un aspetto «epocale» della nostra cultura di fine secolo. Il dramma intellettuale – irrisolvibile - di Pasolini consisteva in ciò: voler essere poeta, a tutti i costi, disperatamente (almeno a partire dall’ «incontro» a 16 anni con Rimbaud ), ma non riuscire a trovare dentro la poesia italiana del suo (e nostro) tempo una lingua che fosse all’altezza delle sue ambizioni ed esigenze espressive. Di qui il bisogno continuo di giustificarsi, di spiegarsi, di autocommentarsi…
La sua lingua poetica si mescola continuamente e intrepidamente ad altro (scrittura giornalistica e civile, autobiografia esplicita, gerghi impuri della quotidianità), si crea un proprio pubblico (che la poesia non ha più), e a sua volta reinventa nuovi generi letterari(il pamphlet lirico, l’allegoria etico-politica, la requisitoria di tono quasi visionario…). Il risultato è che Pasolini ci appare oggi soprattutto come un saggista involontario, quasi per obbligo, un geniale, inesauribile saggista: i film sono saggi sul cinema, le poesie saggi sulla poesia, i romanzi saggi sul romanzo…
No, la cultura poetica dell’Italia contemporanea, per quanto atipica e non priva di solitarie eccezioni, non poteva offrire molto di più alla sua incontenibile immaginazione morale, ai
suoi furori esistenziali. Fa bene Giacomo Jori (nel recentissimo Pasolini, Einaudi Tascabili) a sottolineare che per Pasolini una completa libertà poetica sprofonderebbe dentro la densità stessa del reale (e dentro il vuoto che lo sottende), nella «poesia vissuta». Nonostante l’enfasi sull’impegno o la vocazione pedagogica, il centro seminascosto dell’intera produzione pasoliniana è infatti situato fuori della storia e di ogni «sorte progressiva», in una creaturalità assoluta, tragica, che sconfina nella morte e nel nulla (e di cui è rimasta traccia nel mito). Difficile dunque citarlo o maneggiarlo prescindendo da quel centro o nucleo rovente, da quella religiosità atea e innominabile, da quella concezione totalmente adialettica della realtà.
Piuttosto, dato che alla poesia Pasolini intendeva assegnare un ruolo decisivo, nient’affatto ornamentale ma «politico», di resistenza attiva, noi oggi dovremmo chiederci: come mai il suo sguardo «poetico» sul nostro paese si mostrava assai più razionale di tutte le analisi fatte da politici, scienziati sociali, rivoluzionari di professione, etc? qual era il suo «valore aggiunto», da cosa si originava il suo lucido contenuto di verità? Non stiamo celebrando un artista visionario vissuto 100 anni fa! No, la «fabula» narra proprio di noi, qui ed ora. Certo, nel momento il cui il discorso sull’omologazione diventa un pigro stereotipo culturale, viene magari la tentazione opposta, di scoprire quanto non è omologato (e parlare magari di «omologazione differenziata», usando quella figura dell’ossimoro così cara a Pasolini). Ma questa «mutazione»di cui lui parlava ci piace o no? Quanto è andata avanti dentro ciascuno di noi negli ultimi venticinque anni e in che direzione? Siamo sprofondati un po’ di più nell’irrealtà dei consumi? O tutte queste domande non hanno più senso? O magari si tratta soltanto di ingegnose metafore, di iperboli ad effetto di un letterato un po’ eccessivo? Il punto non è quello di riconoscere in Pasolini un grande e originale autore di versi, di inserirlo nel «canone», ma di capire se nel suo sguardo poetico sulle cose - presente in ogni pagina, in ogni immagine che ci ha consegnato - si racchiude una verità per noi ancora contundente e capace di rivelazione.
2. Pier Vincenzo Mengaldo
Tornato da un breve viaggio, vedo l'attacco che Gianni D'Elia mi rivolge nel numero di martedì 5 del vostro giornale, rimescolando faccende private che saranno perciò riuscite incomprensibili ai lettori. Che D'Elia non sappia distinguere il privato dal pubblico non mi sorprende; mi sorprende che non l'abbia fatto il vostro giornale, collocando addirittura il suo sfogo in prima pagina. I poeti «giovani» vorrebbero che i critici si occupassero di loro, ma i critici hanno il diritto di occuparsi di ciò che vogliono, e di cose che ritengono più importanti. Osano persino sentirsi autorizzati a limitare Pasolini, che per certa sinistra è diventato come Garibaldi: non se ne può parlare male. E guai se uno scrittore potesse reclamare per sè il diritto di essere esente da critica per le sue posizioni politiche (che poi, nel caso di Pasolini furono spesso reazionarie). Checchè ne pensi D'Elia che si ripara dietro a Pasolini, le opere letterarie vanno giudicate secondo criteri letterari. E questo è tutto.
3. Rifiutò l’arcadia letteraria e fu corsaro nel nostro tempo. Umberto Piersanti
Ero a Tarquinia quando Pasolini fu assassinato: il mattino comprai Paese Sera. C’era un fondo, incredibile, di Edoardo Sanguineti: grondava violenza, uno squallido necrologio. In pratica si sosteneva che la morte intellettuale e artistica di Pasolini aveva preceduto quella fisica: e in quelle righe non spirava un minimo di pietas, che non è un sentimento «reazionario» come potrebbero credere quelli del Gruppo ’63 ed affini.
Pasolini ha sempre provocato amori totali e rifiuti altrettanto assoluti: è, forse, l’autore al quale è più difficile avvicinarsi con simpatia e misura nello stesso tempo. E questo è anche un segno della sua grande forza intellettuale, di quel suo modo d’essere al mondo e di pensare, degli «interventi» che lasciavano tramortiti o entusiasti.
Sì, perché soprattutto Pasolini è un maître-à-penser, un «filosofo», ma non nello spirito della tradizione «sistematica» tedesca o italiana: un «filosofo» pronto all’intervento continuo sulle grandi questioni o su un di un singolo episodio, secondo la migliore tradizione francese. L’articolo sulle lucciole coniuga in modo assoluto intelligenza e fantasia, apre con grande anticipo tutto il dibattito ecologico, ma lo supera nettamente per profondità di pensiero ed intelligenza anche «sensibile» delle cose. E, spesso, i suoi interventi erano imprevedibili: la presa di posizione in una lirica (in realtà sul piano del risultato artistico piuttosto modesta) uscita su Nuovi Argomenti a favore dei poliziotti contro gli studenti contestatori, lasciò gli intellettuali di sinistra (sempre sostanzialmente conformisti e prevedibili) ed ancor più i vari gruppi e gruppetti degli anni Settanta assolutamente sconcertati. E gli attacchi (anche da parte di chi poi ha cambiato opinione) non si contarono. Non si trattava di un puro paradossi, non era la trovata di qualcuno che anticipava Sgarbi da sinistra: il friulano aveva individuato nel culto della violenza in quanto tale (quella della sinistra, sia pure storicamente talora spaventosa, almeno «apparentemente» era stata intesa come un mezzo per raggiungere dei fini) il tratto comune tra gli estremisti dell’una e dell’altra parte. E le P38 nate in quel brodo di cultura gli avrebbero dato pienamente ragione.
Il suo sguardo era straordinario quando si trattava di criticare la società «consumistica», «occidentale». Manca invece anche in lui una condanna precisa ed articolata del «socialismo reale» e dei suoi orrori: anche l’assassinio del fratello partigiano Guido, da parte di altri ignobili partigiani in quel tragico Nord-Est che ha visto sì e soprattutto l’unico campo di sterminio nazista in territorio italiano, ma anche le foibe, fu sostanzialmente rimosso.
Se la personalità di Pasolini è un tutto inscindibile e come tale agì sulla società e sulla cultura italiana, è necessario poi entrare nel vivo della sua produzione. Ma qui mi limiterò ad alcuni accenni sul narratore e sul poeta.
Il friulano non è stato un grande romanziere: le sue opere sono interessanti sia sul piano tematico che su quello linguistico, ma non si collocano certo tra i capolavori del Novecento. Come poeta ha scritto alcuni grandi libri: il Pasolini friulano, inoltre, con il suo nuovo e straordinario uso del dialetto, si pone all’inizio di quella poesia neo-volgare che tanta importanza ha avuto e che continua ad avere. Le ceneri di Gramsci e La religione del mio tempo sanno unire la passione civile ed il vissuto umano, l’utopia rivoluzionaria e l’amore viscerale per la tradizione. Dopo prevale da una parte un formalismo estremo e dall’altra un impegno troppo gridato.
Qual è oggi il suo lascito per ciò che riguarda la poesia? Il rifiuto della sempre sopravvalutata in Italia dimensione letteraria così come la presenza costante della «vita», della «politica», delle «cose», la consapevolezza del loro indissolubile legame, rimangono, a mio parere, punti fermi in una ricerca che a partire dai tardi anni Sessanta, si è distaccata dalle secche dello sperimentalismo ossessivo e, più recentemente, dalle frigidità mitiche e neo-classiche.
L’«impegno», però, non è un obbligo: la vita conosce anche altri elementi che la poesia può far propri. Le strade possono essere tante e diverse: Bertolucci, Luzi, Caproni ed altri ne costituiscono la prova. La lezione del friulano è certamente importante e da tenere presente, ma non può essere l’unica, l’esclusiva. Tanti sono i sentieri che si aprono oggi sotto il cielo.
AAVV. Perché non possiamo non dirci pasoliniani in L'Unità mercoledì 13 giugno 2001 p.2
Comments