Pier Paolo Pasolini durante le riprese del film "Il Decameron" © Mario Tursi/Archivio Appetito/Tutti i diritti riservati
Caserta, ottobre
Pasolini è un eretico e, in tempi di livellamenti culturali come quello in cui viviamo, l'arte può essere salvata soltanto da nuovi tipi di eresie. Naturalmente Pasolini è anche un nemico perché pensa diversamente da come, in base alla sua origine e alla sua funzione, ci si aspetterebbe che pensasse. E non ha importanza che abbia sempre opinioni giuste, quanto piuttosto che sia staccato dalle istituzioni e dall'ufficialità, nella fortuna e nell'insuccesso. In questo senso il suo Accattone (opera proposta quando un certo tipo di ricerca sociologica sul sottoproletariato urbano sembrava illanguidita) fu una sfida.
E sembrò un controsenso, negli anni Sessanta, che un regista impegnato si occupasse in senso populistico di Cristo e degli Apostoli. Ma Pasolini non desidera essere utile a nessuno, se non a se stesso nella sua furia di prigioniero che usa la fantasia per liberarsi dalle incrostazioni delle abitudini e dai vincoli del luogo comune.
Quindi, non deve sembrare una bizzarria l'ultima scelta del regista di Porcile e di Medea il quale, dopo nove film difficili, rigorosi, ambigui anche quando bastava perché portassero le stimmate del loro autore, prende improvvisamente la scorciatoia del film di rievocazione storica, del film di affresco e mette in lavorazione il Decamerone di Boccaccio. Lo stesso autore ce lo conferma con una rigorosa argomentazione:
Questa non è un'opera spuria, e non è esatto dire che non possa iscriversi nel solco dei mie consolidati interessi. Se si esaminano con attenzione le mie poesie, i miei libri, i miei film, si vedrà che, sia pure con incertezze e cedimenti comprensibili, io ho continuato a fare un discorso preciso, anticonvenzionale, di rottura con l'establishment culturale italiano.
Ma se questo è vero, allora il Decamerone non rischia di passare per un film di tipo archeologico, di recupero di una certa realtà e quindi in sostanza per un'opera di evasione, reazionaria?
Pasolini non si offende a questa arrischiata definizione. È troppo consapevole di rappresentare una zona tropicale della cultura, flagellata da dirompenti uragani per perdere la calma e la compostezza davanti a qualche punzecchiatura:
Be', io non direi che il Decamerone sarà un film reazionario, forse d'evasione come dice lei. quanto all'archeologia, che c'entra? Io ricostituisco una determinata realtà italiana e la restituisco, meditata, all'attenzione dello spettatore. Ed è ingiusto pensare che la cosiddetta rottura degli schemi tradizionali debba avvenire a senso unico, cioè secondo le aspettative della gente; no, la rottura di un fatto istituzionalizzato, di uno schema, può verificarsi in maniera imprevedibile, altrimenti, scusi, che significato avrebbe?
Già. Che significato ha, oggi, riesumare Boccaccio e farne un film? Alla domanda, volutamente provocatoria, Pasolini risponde con la sua solita distaccata gentilezza. È un uomo controllatissimo e mite, quasi rassegnato e non si capisce davvero come faccia con quell'aria impacciata, aa sopportare la volgarità di alcuni fra i suoi più vicini collaboratori e le nefandezze dei cinematografi sguaiati. Forse è la stessa consapevolezza della propria intelligenza, la sua sottile e inconfessata superbia che gli consente di ignorarli, abbracciarli, incitarli instancabilmente dalle sette della mattina alle otto di sera; sempre, senza un minuto di requie, una scena dopo l'altra, con un'ansia e un affanno nevrotici. Appena il tempo di mangiare un panino, spesso in piedi, perché lui non può indugiare, ha bisogno di muoversi, di arrampicarsi, di correre, di travestirsi. Ora è dietro alla macchina da presa con la sua camiciola azzurrina e i pantaloni marroncini, adesso invece ha indossato uno dei costumi che Danilo Donati ha creato, ispirandosi soprattutto a Giotto. e diventa lo stesso Giotto. Anzi no, un amico di Giotto, personaggio che fungerà da filo, da legame, attraverso le dieci novelle che compongono il film, e nello spazio polveroso del mercato di Caserta vecchia circondato da ruderi, sotto un sole che qui ancora ti spacca la testa, tra buoi, asini, maiali, inserte di limone e ceste di patate, Pasolini arriva salta beccando dalla collina. I contadini bardati da frati, armigeri, mercanti, popolo minuto lo guardano con stupefatti terrore. Tiene il diavolo in corpo!
E invece, poco dopo, il diavolo è sparito e il regista Pasolini riprende pazientemente la parte del professore:
Qui non si tratta di riesumare un bel niente. Perché faccio un film su Boccaccio o ispirato a Boccaccio come vuole lei? Perché Boccaccio mi piace e questo mi pare sufficiente a giustificare il mio impegno d'artista; del resto, rifletta, nessun artista sa mai compiutamente che cosa dire e quali mai significati si potranno attribuire alla sua opera mentre realizza l'opera stessa. È chiaro che un discorso sulla validità di un film, come di un libro o di una poesia, fa parte di un momento successivo, quello cioè della riflessione critica. Quindi, a ben vedere, questo mio Decamerone non è nemmeno un film d'evasione, come ha detto lei; diciamo piuttosto che è un'opera di poesia e non diamogli per ora altri significati.
Quindi non sarebbe esatto dire che il Decamerone rappresenta il momento di disimpegno di Pasolini, il suo distacco dalla battaglia politica quotidiana: le ceneri di Pierpaolo, per parafrasare con disinvoltura il titolo di un celebre libro pasoliniano?:
È certamente sbagliato ed è sbagliato perché la realtà cui lei si riferisce non esiste più, in Italia. Era quella la condizione di vita degli anni Cinquanta. Quando appena cominciava ad affacciarsi una cultura di massa che è qualcosa di diverso dalla cultura tradizionale. Allora ci fu in me una ribellione che si manifestò con lo scandalo, con i processi, con le persecuzioni. Ma ora che tutti i vigili urbani della Toscana sono chiamati in giudizio per uno sciopero, ora io mi sento un uomo antico, dirò anche un po' superato; ora, insomma, che senso ha combattere con le stesse armi di un tempo? Rischierei di ripetermi, in un vaniloquio assurdo. Un film fatto con gli stessi intendimenti di allora, quello sì sarebbe archeologico. Dunque è per motivi meditati e non per vizio di esibizionismo che ho deciso di cambiar rotta; non è una rinuncia, intendiamoci bene, è soltanto una maniera diversa di esprimersi, di rigenerarsi; io rinuncio al mitico, all'epico che si trovava nei miei film precedenti e vico un momento gaio, spensierato, che perciò diventa razionale e comprensibile in quanto riflette un mio preciso stato d'animo.
Però nel Decameron si tratta pur sempre di un film in costume cioè di un discorso che non varie mistificazioni spettacolari è stato portato avanti dai registi meno intelligenti e più commerciabili degli anni passati, quelli per intenderci che ci mostravano Garibaldi fiero e impettito sul cavallo bianco e sono finiti poi nel calderone del western all'italiana. Non è singolare che proprio allora Pasolini realizzasse un film come Accattone mentre ora che gli altri hanno scoperto la rivoluzione, il problema dei giovani e la validità della protesta, l'autore di Ragazzi di vita si rifugi nel ricordo di Andreuccio Da Perugia? O è proprio questa contraddizione che ha un senso? Pasolini risponde con un'ampia argomentazione:
Innanzitutto io parlo ed ho sempre parlato di un film d'autore, degli altri non m'interesso. In questo senso dicevo che il mio Decamerone s'inserisce in un preciso discorso. Io sostengo che non esiste in Italia una società letteraria, non esistono quasi scrittori se non a livello modesto e provinciale. Questo Paese ha invece una notevole e storica tradizione pittorica. E che vuol dire pittura se non il tentativo di restituire la realtà per immagini? Ecco, il cinema, dal dopoguerra ad oggi, non ha fatto che ricostruire e quindi offrire una realtà italiana per immagini: è il solo mezzo, o quasi, che si ha per esprimersi, per farsi conoscere. In questo senso, nel fare un film in costume, come dice lei, non ci trovo niente di male. Anzi. Attraverso questo film intendo recuperare l'unica realtà italiana ancora intatta: quella di Napoli. Una città che sembra fuori dalla storia moderna perché non ancora raggiunta, depredata, livellata dalla società dei consumi: forse l'unica realtà popolate ancora autentica in questo paese.
Questa considerazione su Napoli l'abbiamo già ascoltata: la formularono confusamente annia fra gli intellettuali che abbandonavano la città, ma è impressionante sentirla come una scoperta dalla bocca di Pasolini che ha il dono di renderla credibile. Accettabile. Giustificati sembrano anche i suoi timori sulle parole che pronuncia: frasi, concetti, affermazioni che, dice, verranno inevitabilmente alterati, alienati da una massa e dai mezzi di comunicazione di massa. Proprio come accadde per quella sua famosa poesia contro gli studenti e a favore della polizia? È l'unico momento in cui Pasolini si turba:
Ecco, non si può incendiare nuova energie se il liquido si è solidificato e la mistificazione ha rivestito con la camicia della menzogna la somma dei sentimenti, delle esperienze e degli slanci. Io non ho verità definitive da rivelare, non sono un profeta e nemmeno un curatore di anime. Trasformarmi in uno stregone significa creare i presupposti per crocifiggermi.
Si alza, sembra molto stanco, anche disfatto. Forse avrebbe voglia di piangere, ma non ne ha il tempo: lo attendono l'operatore Tonino delli Colli, lo scenografo Dante Ferretti e l'attore Ninetto Davoli. Si girano le ultime inquadrature nelle viuzze medievali di Caserta vecchia, domani la troupe si trasferirà, prima a Napoli poi nello yemen, per alcune scene fantastiche.
Gianni di Giovanni. Vivo il mio momento gaio. Pier Paolo Pasolini ha iniziato al decima fatica cinematografica con un soggetto a lui inusuale: il Decamerone. L'ha scelto perché anche la "pittura boccaccesca" può restituire una realtà popolare su Tempo illustrato, 24 ottobre 1970, pp.86-87.
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