Pier Paolo Pasolini durante la conferenza stampa per Teorema a Parigi. 3 febbraio 1968 © Wirephoto/Tutti i diritti riservati
Difficile immaginare due autori coetanei - il primo era nato nel'22, l'altro nel '23-più diversi di Pier Paolo Pasolini e Italo Calvino, come fossero situati sulle parti opposte di una spaccatura, da una parte il Pasolini corsaro che ha deciso di parlare in continuazione, dall'altra Il Calvino del signor Palomar, che parla solo dopo essersi morsa la lingua tre volte. Ma questi furono i loro atteggiamenti finali; prima, invece, i reciproci destini letterari s'erano incrociati più volte.
In un momento particolarmente fecondo, ad esempio - Calvino aveva da poco pubblicato L'entrata in guerra, forse il suo miglior libro sino allora, ed era sempre più al centro delle attenzioni; Pasolini, suscitando grandi clamori, era in libreria con il suo primo romanzo Ragazzi di vita, e, stava dando corpo, insieme a Roberto Roversi e a Francesco Leonetti, alla rivista «Officina»-, entrambi per due o tre anni si trasformarono in archeologi e antropologi di un materiale - quello della tradizione popolare, soprattutto contadina - che rischiava di andare incontro a un drammatico naufragio della memoria. Nacquero allora il Canzoniere italiano ('55) e le Fiabe italiane ('56), tornati entrambi di recente in libreria. Il primo edito da Garzanti e leseconde da Mondadori.
Prima che il Canzoniere fosse dato alle stampe dall'editore Guanda, Calvino potè leggere alcune parti dell'introduzione «dopo il brano su Nuovi Argomenti - è scritto in un lettera dell'aprile "55 -.
Il compendio che leggo ora su «Paragone» mi riconferma nell'opinione che la tua introduzione ai canti pòpolari sia fondamentale non solo per la sistemazione di tutta la problematica poesia-folclore, ma per una sistemazione critica della letteratura italiana contemporanea, che ha proprio nei rapporti col mondo e il linguaggio popolari il suo nodo, e per un legame tra le più avanzate filologie universitarie (Devoto, Contini) con la critica «militante».
Ma non era certo quest'ultima la dimensione che Calvino andava privilegiando nel suo lavoro in fieri sulle fiabe, che, a differenza di Pasolini, traduceva in italiano:
«la problematica che questo lavoro soprattutto muove in me - scrive infatti nella stessa lettera -, non è d'ordine linguistico, ma sulle origini del raccontare storie, del dar senso alla vita umana disponendo i fatti in un dato ordine»
E non è difficile individuare in queste righe la trasformazione più importante che si stava verificando in lui in quel momento: le fiabe gli stavano trasmettendo il demone della combinatorietà, s'era chiuso un periodo della sua vita creativa e cominciava a esserne cosciente.
Quando il Canzoniere fu pubblicato, Pasolini si vide recapitare un'altra lettera del suo amico:
«Da un lato ritrovavo nel tuo lavoro - e imparavo - il procedimento che è anche del mio nel vaglio estetico del materiale fiabistico; dall'altro lato, io che so molto poco di «come si fanno le poesie», di come si organizza il pensiero in forma lirica, ho imparato da questo libro di più che da qualsiasi altro».
Se è vero che Le città invisibili sono anche poesia in prosa, bisogna dire che Calvino trasformò da par suo quell'insegnamento. L'intreccio creativo, in quel caso, però, ripetendosi, s'invertiva.
«Per me, che sto lavorando a Le mille e una notte-, scrisse Pasolini in una recensione, con Le città fresche di stampa - leggere questo libro è stato quasi inebriante»; erano infatti proprio Le mille e una notte «Il modello : figurativo che il surrealismo di Calvino parsimoniosamente saccheggia».
Era il '72, solo tre anni dopo Pasolini sarebbe scomparso; quasi contemporaneamente faceva la sua prima apparizione quel Marcovaldo tragico che è il signor Palomar; quello stesso personaggio cui di li a poco Calvino suggeriva d'imparare a essere morto.
Silvio Perrella. Con Pasolini per le sue fiabe in L’Unità 8 febbraio 1993, p.2
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