Sul numero 6 di aprile-giugno 1967 di Nuovi argomenti Pier Paolo Pasolini pubblica le poesie su Israele che non aveva inserito nella raccolta di tre anni prima e una nota molto polemica nei confronti della sinistra che aveva prese una netta posizione contro Israele. È un testo da rileggere.
Pier Paolo Pasolini con don Andrea Carraro (sacerdote della Pro Civitate Christiana di Assisi) e Otello Martelli, operatore del programma RAI Settimana Incom durante le riprese del documentario Sopralluoghi in Palestina, 1963 © Angelo Novi/Cineteca di Bologna/Tutti i diritti riservati
Giuro sul Corano che io amo gli arabi quasi come mia madre. Sono in trattative per comprare una casa in Marocco e andarmene là. Nessuno dei miei amici comunisti lo farebbe, per un vecchio, ormai tradizionale e mai ammesso odio contro i sottoproletariati e le popolazioni povere. Inoltre forse tutti i letterati italiani possono essere accusati di scarso interesse intellettuale per il Terzo Mondo: non io. Infine, in questi versi, scritti nel ‘63, come è fin troppo facile vedere, sono concentrati tutti i motivi di critica a Israele di cui è ora piena la stampa comunista.
Ho vissuto dunque, nel ‘63, la situazione ebraica e quella giordana di qua e di là del confine. Nel Lago di Tiberiade e sulle rive del Mar Morto ho passato ore simili soltanto a quelle del ‘43, ‘44: ho capito, per mimesi, cos’è il terrore dell’essere massacrati in massa. Così da dover ricacciare le lacrime in fondo al mio cuore troppo tenero alla vista di tanta gioventù, il cui destino appariva essere appunto solo il genocidio. Ma ho capito anche, dopo qualche giorno ch’ero là, che gli israeliani non si erano affatto arresi a tale destino. (E così, oltre ai miei vecchi versi, chiamo ora a testimone anche Carlo Levi, a cui la notte seguente l’inizio delle ostilità, ho detto che non c’era da temere per Israele, e che gli israeliani entro quindici-venti giorni sarebbero stati al Cairo). È dunque da un misto di pietà e di disapprovazione, di identificazione e di dubbio, che sono nati quei versi del mio diario israeliana.
Ora, in questi giorni, leggendo l’Unità ho provato lo stesso dolore che si prova leggendo il più bugiardo giornale borghese. Possibile che i comunisti abbiano potuto fare una scelta così netta? Non era questa finalmente, l’occasione giusta per loro di «scegliere con dubbio» che è la sola umana di tutte le scelte? Il lettore dell’Unità non ne sarebbe cresciuto? Non avrebbe finalmente pensato – ed è il minimo che potesse fare che nulla al mondo si può dividere in due? E che egli stesso è chiamato a decidere sulla propria opinione? E perché invece l’Unità ha condotto una vera e propria campagna per «creare» un’opinione? Forse perché Israele è uno Stato nato male? Ma quale Stato, ora libero e sovrano, non è nato male? E chi di noi, inoltre, potrebbe garantire agli Ebrei che in Occidente non ci sarà più alcun Hitler o che in America non ci saranno nuovi campi di concentramento per drogati, omosessuali e ebrei? O che gli ebrei potranno continuare a vivere in pace nei paesi arabi? Forse possono garantire questo il direttore dell’Unità, o Antonello Trombadori o qualsiasi altro intellettuale comunista? E non è logico che, chi non può garantire questo, accetti, almeno in cuor suo, l’esperimento dello Stato d’Israele, riconoscendone a sovranità e la libere!? E che aiuto si dà al mondo arabo fingendo di ignorare la sua volontà di distruggere Israele? Cioè fingendo di ignorare la sua realtà? Non sanno tutti che la realtà del mondo arabo, come la realtà della gran parte dei paesi in via di sviluppo – compresa in patte l’Italia – ha classi dirigenti, polizie, magistrature, indegne? E non sanno tutti che, come bisogna distinguere la nazione israeliana dalla stupidità del sionismo, così bisogna distinguere i popoli arabi dall'irresponsabilità del loro fanatico nazionalismo?
L’unico modo per essere veramente amici dei popoli arabi in questo momento, non è forse aiutarli a capire la politica folle di Nasser, che non dico la storia, ma il più elementare senso comune, ha già giudicato e condannato? O quella dei comunisti è una sete insaziabile di autolesionismo? Un bisogno invincibile di perdersi, imboccando sempre la strada più ovvia e più disperata? Così che il vuoto che divide gli intellettuali marxisti dal partito comunista debba farsi sempre più incolmabile?»
Pier Paolo Pasolini da Nuovi Argomenti numero 6, aprile-giugno 1967
Camminavo nei dintorni dell’albergo – era sera –
e quattro o cinque ragazzetti comparvero,
nella pelle di tigre dei prati, senza
una rupe, un buco, un po’di vegetazione
dove ripararsi da eventuali spari: ché
Israele era lì, sulla stessa pelle di tigre,
cosparsa di case di cemento e vani
muretti, come in ogni periferia.
Li raggiunsi, in quell’assurdo punto,
lontano dalla strada, dall’albergo,
dal confine. Fu un’ennesima amicizia,
una di quelle che durando una sera,
straziano poi tutta la vita. Essi,
i diseredati, e, per di più, figli
(che, dei diseredati hanno il sapere
del male – il furto, la rapina, la menzogna –
e, dei figli, l’ingenua idealità
del sentirsi consacrare al mondo),
essi, ebbero subito la vecchia luce d’amore
– come gratitudine – nel fondo degli occhi.
E, parlando, parlando, finché
scese la notte (e già uno mi abbracciava,
dicendo ora che mi odiava, ora che no,
mi amava, mi amava), seppi, di loro, ogni cosa,
ogni semplice cosa. Questi erano gli dei,
o figli di dei, che misteriosamente sparavano,
per un odio che li avrebbe spinti giù dai monti di Creta,
come sposi assetati di sangue, sui Kibutz invasori
sull’altra metà di Gerusalemme…
Questi straccioni, che vanno a dormire, ora,
all’aperto, in fondo a un prato di periferia.
Coi loro fratelli maggiori, soldati
armati di un vecchio fucile e di due baffi
di mercenari rassegnati a vecchie morti.
Questi sono i Giordani terrore di Israele,
questi che davanti a me piangono
l’antico dolore dei profughi. Uno di essi,
deputato all’odio, già quasi borghese (al moralismo
ricattatore, al nazionalismo che sbianca di furore
nevrotico) mi canta il vecchio ritornello
imparato dalla sua radio, dai suoi re –
un altro, nei suoi stracci, ascolta assentendo,
mentre, come un cucciolo, si stringe a me,
non provando altro, nel prato di confine,
nel deserto giordano, nel mondo,
che un misero sentimento di amore.
L’alba meridionale in Poesia in Forma di Rosa, Milano, Garzanti, 1964, p.168.
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