Pier Paolo Pasolini a casa sua, Roma (1965) © Vittorio La Verde / Riproduzione riservata
Ho sbagliato tutto. Sbagliava, spaurito al microfono, con la prepotente incertezza del brutto,
dei soave poeta, quel mio omonimo, che ancora ha il mio nome. Si chiamava Egoismo, Passione.
Sbagliava, con la sua balbettante bravura, rispondendo a domande di amici o fascisti, Maciste magretto della letteratura.
Interlocutori di Teramo o Salerno, di Conselice, o Frosinone o Genova, quello là, che aveva tanta ragione,
sbagliava lutto.
Sceso giù da Parigi – una primavera uguale in tutta Europa, mestruo di fango e sole febbrile,
o che sui campi (ruggini con viola di prugna velato, e ovali verdi, con in fondo l’ombra della foresta romanza...
Watteau, Renoir – salnitri sotto lo strato di verde, barbarico) il sole di quella primavera spargesse prepotente dolore,
o su questi campi: ai piedi di pale d’altare, rosso apenninico e casupole di sottoproletariato latino –
... io ho sbagliato tutto. Ah, sistema di segni escogitato ridendo, con Leonetti e Calvino,
nella solita sosta, nel Nord. Segni per sordomuti, con ideografie una volta per sempre internazionali.
Il povero Denka nel fondo del Sudan, con gli altri poveri selvaggi (centoventi dialetti), regga sicuro
sulla spalla la lancia come uno sci, alto, sublime verme nudo, nonno o nipote,
tra quel disegno mai disegnato (se non dai fanatici razionalisti roussoiani, in Europa)
di sicomori e di mogani (che io amo come i più bei monumenti cristiani: sarà il sole, la pace,
l’orrore dell’Africa intorno) gonfi e asimmetrici sul verde, sul verde non francese, sul verde non latino,
– sul nuovo verde del mondo, da millenni incarnato nella foresta. State tranquilli, Denka, e voi delle centoventi altre tribù
parlanti suoni di ceppi diversi,
perchè qui con Leonetti e Calvino sistemiamo i sistemi di segni, e buonanotte ai dialetti.
Ho sbagliato tutto. Fiumicino, riapparso di tra nuvole di fango, è ancora più vecchio di me.
I resti del vecchio Pasolini sui profili dell’Agro... tuguri e ammassi di grattacieli...
È una rosa carnale di dolore, con cinque rose incarnate, cancri di rosa nella rosa
prima: in principio era il Dolore. Ed eccolo, Uno e Cinquino. La prima rosa seriore significa
(ah, una puntura di morfina! aiuto!):
Hai sbagliato tutto, brutto, soave! L’idea di aver sbagliato! Io! Capite? Io! Lo smacco, lo scacco...
È finita: bestemmiare, suicidarsi, il sole di fiume di Fiumicino vuol dire che sono pieno di sabbia
accecante, di limo sbriciolato. Dentro il tassì i petali del cancro, verso la riaffiorata
Roma, col vecchio Pasolini macro di sè, sdato, degradato. E, dietro l’errore nella questione linguistica,
ecco, petalo incarnato su petalo, nella Rosa Cinquina, il Dolore Due: lo « sbaglio di tutta una vita ».
Basta staccare un petalo e lo vedi. Rosso dove doveva esser bianco, o bianco dove doveva esser giallo, come
volete : e questo per tutta una vita, che, per fatalità, consente UNA SOLA VIA, UNA FORMA SOLA.
Come un fiume, che – nel meraviglioso stupefacente suo essere quel fiume – contiene il fatale non essere alcun altro fiume.
Si dice, nella vita van perse molte occasioni: ma... la Vita ha un’occasione SOLA. Io l’ho perduta tutta.
Come può, tutto ciò, non ripercuotersi nel sesso, castrando il figlio fino all’ultima lacrima?
E così ecco la Terza Corona del Cancro. Una discesa di barbari alloglotti (il tassì rade argini, l’erba
tagliente e cupa, dal cuore delle notti – misteriose e palustri, di nascenza – abbandonata a questo sole micidiale),
una discesa medioevale, di Goti o Celti. Questo sole che dà emicrania a adolescenti moderni, a universitari, a donne
di ceti medi, con rossetti e patenti... intossica anche il barbaro... Ah, egli nel gelo dei praticelli fiorenti
riposerà, assorto, forse, in qualche lavoro manuale, non indegno, mai, dell’uomo. Su lui, tacerà,
oltre le divisioni dei maggesi – pagane, con Priapo, cristiane con la croce – nel comune latino
la campana, che mai nei millenni suonò verso le tre del pomeriggio. È prima della primavera il risveglio del sesso: sarà il gelo o il sudore
a risvegliare nei panni ancora invernali, di maglia, la carne, come di cane o cavallo, che pare, della maglia, aver la stessa arsura
molle come frutto e secca come fango, sarà il freddo che serpeggia sull’erba troppo verde sugli argini,
o il caldo del primo sole bianco, in cui la campana del Comune tace, le bestie pascolano come sognando...
E la donna, la cui nobiltà si manifesta nell’ipocrisia di fingersi soltanto remissiva,
– chiamando obbedienza la sua debolezza – è anche lei perduta in un lavoro manuale, di femmina, lei, tra le femmine...
E non canta: perchè mai nei millenni donna cantò alle tre del pomeriggio.
Il mestruo nel sole non ha odore. Le bestie pascolano come sognando...
Quel Terzo Dolore consiste non nel patire la terribile voglia ma nel trarne solo ossessione.
E, da qui, il Quarto Dolore, per cui succube degli impeti di morte che mi salgono dal ventre, batterei il capo, muto, contro i vetri
del tassì che percorre l’orribile autostrada dove è chiaro che sono senza amore, mentre, barbaro o miseramente borghese, il mondo è pieno, pieno d’amore... Di secolo in secolo
il sole dà emicranie e erezioni – il padre orina, dominando la voglia per la notte, nel fossatello di un’antica divisione
di campi, dovuta a pre–Italici ed Italici, in questo stesso cerchio dell’Appennino, io, da questo sole, maglia di lana
e primo sudore nel gelo, io vado constatando, coi pugni sul ventre, la mia mancanza di amore, fino all’ultima lacrima.
Il Quinto Dolore è il meno esprimibile (ora, poi, che a Parigi nei giornali storpiano il mio nome,
e con Calvino e Leonetti, Ordinari di Modernità nelle cattedre del Nord, si prospetta un’era antropologica
che dissacra i dialetti!) ora, poi, è addirittura ridicolo, fuori dalle sue lacrime,
nella comprensione della sua ragione: la delusione della storia! Che ci fa giungere alla morte senza essere vissuti,
e, per questo, restare sulla vita a contemplarla, come un rottame, uno stupendo possesso che non ci appartiene.
Ridicolo dolore di prigioniero, di sciancato, che vede tutto concesso agli altri in un trionfo di felicità senza fine
semplice come la luce del sole con cui si confonde.
Il Quinto Dolore è sapere che miliardi di viventi una dolce mattina, si desteranno, come in ogni mattina della loro vita,
nel semplice sole dell’Europa futura, i suoi gelsi, le sue primule, – o in quello profondo dell’India nel puzzo sublime del colera che aleggia
su corpicini nudi come spiriti, – o in quello spudorato dell’Africa sempre più moderna sul verde della morte che sarà cornice al furioso dono della vita,
– o in questo di Fiumicino, sole di fiume che fa dell’odore del fango una festa di misera immortalità latina...
Miliardi di viventi, una dolce mattina si desteranno, al semplice trionfo delle mille mattine della vita,
con la maglia riarsa... con l’umido del primo sudore... Felici essi – felici! Essi soltanto felici!
Essi soltanto possessori del sole! Lo stesso sole del barbaro che nel Medioevo discese,
e, dalle gole dei monti, dalle ombre della neve, si accampò, sull’erba nera e folta, cattiva e felice degli argini d’aprile.
Solo chi non è nato, vive! Vive perchè vivrà, e tutto sarà suo, è suo, fu suo!
Si apre come un’aurora Roma, dietro le spirali del Tevere, gonfio di alberi splendidi come fiori,
biancheggiante città che attende i non nati, forma incerta come un incendio nell’incendio di una Nuova Preistoria.
Pier Paolo Pasolini, Poesia in forma di rosa (1964) nella raccolta omonima, Garzanti (1964)
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