Pier Paolo Pasolini, Roma 1958 © Cecilia Mangini/ Archivio Cecilia Mangini e Lino del Fra, Roma
Com’era nuovo nel sole Monteverde Vecchio!
Con la mano, ferito, mi facevo specchio
per guardare intorno viali e strade in salita
vivi di gente nuova nella sua vecchia vita.
Giunsi nella piazza, accaldato e tremante,
ché gelo e sole insieme il quartiere accecante
sbiancavano con muta ed estasiata noia.
Ricco era il quartiere, ma popolana gioia
ne invadeva interrati ed attici con voci
vaghe ma violente, canti lieti e feroci
di garzoni, di serve e d’operai perduti
su bianche impalcature, tra bianchi rifiuti.
Come non sentire, con la vita il cuore
esser diverso e uno, essere gelo e sole?
Come non sentire ch’è pura gratitudine
per il mondo anche l’essere umiliati e nudi?
Mi aspettava nel sole della vuota piazzetta
l’amico, come incerto… Ah che cieca fretta
nei miei passi, che cieca la mia corsa leggera.
Il lume del mattino fu lume della sera:
subito me ne avvidi. Era troppo vivo
il marron dei suoi occhi, falsamente giulivo…
Mi disse ansioso e mite la notizia.
Ma fu più umana, Attilio, l’umana ingiustizia
se prima di ferirmi è passata per te,
e il primo moto di dolore che
fece sera del giorno, fu pel tuo dolore.
Intanto nulla era mutato sotto il fresco sole.
Anzi, l’indorarsi quieto del mezzogiorno
pareva eternare ogni cosa all’intorno.
Rifui solo: seguii con l’occhio l’auto
sparire con lui, nell’aria che ogni smalto
aveva perso ed era aria, soltanto aria,
l’aria in cui si vive, ignorati ed amari,
ogni giorno, mangiando silenziosi la vita,
sia ripugnante o dolce, lieta o nemica.
Com’era estraneo ora, ogni allegro grido,
per chi, ora, andava lungo un diverso lido.
Il guizzo di rossore che al sole occhieggiava
da una maglia o uno straccio per la sperduta strada,
era sangue colante dal petto ferito
d’un ignaro animale, stanato, inseguito…
Ché intanto il più recente giorno del creato
dorava il quartiere dolcemente gelato
di un sole mattutino ridestato dal fondo
dei più antichi giorni che dorarono il mondo.
Come portando sole la carretta spingeva
l’erbivendolo greve sopra il fango lieve;
radendolo il garzone, con un fischio d’amore
s’alzava sui pedali, cantava: Anema e core…
Tutto Monteverde tremava di martelli
da assolati cantieri ad assolati sterri.
Ma era solo un fervore di gente umiliata:
era solo la pace che una città occupata
spande nella sua luce come un tempo pura,
rassegnata a esser vinta, a brulicare oscura.
Meridionali voci, risa di vecchia gente
hanno allora un clamore che la storia non sente:
dove guizza più vivo uno straccio, uno sguardo
lì più morta al sole la natura riarde.
Ed ecco la mia casa, nella luce marina
di via Fonteiana in cuore alla mattina:
la mia tana, indifesa, cieca di speranza,
dove bruciare l’ultima remora che mi avanza.
Entro e mi rinchiudo, muto e spento come
un impiccato solo col suo corpo e il suo nome.
E con quanta dolcezza nella mia stanza cola
l’olio dardeggiante dello svenato sole!
Ah, lo so che le cagne, con il loro latrato,
ridestano ignare il Dio dimenticato:
sento come sono, ricordo come fui,
visto dallo sguardo improvviso di Lui.
Ma anche all’uomo più ingenuo nel petto ferito
il sangue si annera, anche all’uomo più mite
nello stupito occhio si annera il dolore.
Più fu un tempo tenero, più s’indurisce il cuore.
E conosce i geli, le indifferenze, i muti
e scorati disgusti di chi ormai si rifiuti
a vibrare ancora, e sotto essi celi
la sperduta violenza dei suoi affetti veri.
E a dare, egli innocente, ai colpevoli scandalo,
china muto lo sguardo, o ragiona tremando
– il duro disprezzo e lo spaurito riso
confondendo nel vecchio ed infantile viso –
rozzo e cavilloso, sgraziato e squisito.
E, se questo è orgoglio, per questo è punito.
Sconta in esperienze disperate ed oscure
l’inesperienza chi in essa resta impuro.
O sole che inondi d’un pasquale albore
la mia povera stanza, e mi bruci sul cuore,
nella tiepida onda con cui piovi dal cielo
fai qui dentro spirare fatto puro e leggero
l’urlo delle cagne, che strozzate e stolte
promettono disprezzo, disperazione e morte…
Ma perché costringermi ad odiare, io
che quasi grato al mondo per il mio male, il mio
essere diverso – e per questo odiato –
pure non so che amare, fedele e accorato?
Non sono ancora vivi e presenti uomini
che sono per vent’anni vissuti di passioni
soffocate in petto perché nemiche al mondo,
brucianti perché estranee a ogni triste e giocondo
atto della nazione, a ogni pena o festa
che più è ignara, più, per l’escluso, è onesta?
Uomini vissuti per vent’anni col cuore,
così fecondo, arso da infecondo rancore?
Ecco lì, dietro il lume fragrante del sole
tra sterri e impalcature, l’oleato fulgore
d’una periferia nuda come un inferno,
un fiume di terrazze contro lo sfatto schermo
dell’agro nella cui vampa diffusa fiata
tra le gru la Permolio la vampa ranciata;
e infossa il divorato vallo la Ferro-Beton
tra frane di tuguri, qualche marcio frutteto,
e file di cantieri già vecchi nel mattino.
Quasi allegri, è vero, con il loro destino
per vie calde d’asfalto, contro baracche e prati,
garzoni, operai, serve, disoccupati
brulicano al più recente giorno del creato
che dora il quartiere dolcemente gelato
di un sole mattutino ridestato dal fondo
dei più antichi giorni che dorarono il mondo…
E, però, lo so bene!, se smaniano angosciosi
i latrati in quel sole, tra i rioni festosi,
e minacciano morte, sordidamente ossessi
contro chi tradisce perché è diverso, essi,
nell’aria troppo dolce, nell’umana innocenza
non sono che i messi della mia coscienza.
1956
Pier Paolo Pasolini. Récit (1956) in Botteghe Oscure, settembre 1956 poi in Le ceneri di Gramsci (1957)
Bellissima prosa in versi, profonda e riflessiva. Dal mio punto di vista assurge a lirica di sconfinata malinconia, che perme ogni miseria umana. Il pregio di Pasolini è riuscire a colmarla di altrettanta fiera dignità, presente nell'animo umano pur se sovente abbruttita dal male e dalla sofferenza