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Lui sbaglierà ma almeno continua a pensare. Leonardo Sciascia su Pasolini


Leonardo Sciascia a Palermo © Vittoriano Rastelli/Corbis/Riproduzione riservata

Entrerei in contraddizione con me stesso se dicessi di non essere d'accordo con l'articolo di Pasolini pubblicato il 10 giugno dal "Corriere" (e posso anche confessare che vorrei non essere d'accordo). Forse la mia visione delle cose - hic et nunc in Italia e in questo momento - e meno radicale della sua, nel senso che mi pare di non dover perdere di vista il fascismo come fenomeno di classe, di una classe; ma la mia paura più profonda è tanto vicina alla sua. Si potrebbe, per dargli ragione, fare dei lunghi discorsi (come si faranno per dargli torto), ma voglio limitarmi a un solo esempio: le Brigate Rosse.


Secondo l'ortodossia rivoluzionaria, non c'è dubbio che l'azione delle Brigate Rosse è stata, nel caso Sossi, assolutamente ineccepibile sia in ordine alla tempestività che agli effetti. Se un movimento rivoluzionario non sa insinuarsi nelle crepe che la società, il regime, lo Stato che combatte gli offrono e allargarle; se non sa fare in modo che le contraddizioni interne di quella società, di quel regime, di quello Stato si inaspriscano ed esplodano, non si capisce perché e in che cosa possa dirsi rivoluzionario. Eppure nell'arco nominalmente rivoluzionario del nostro paese l'azione delle Brigate Rosse è stata intesa e spiegata in tanti modi, tranne che in quello più ovvio: e cioè come il modo di preparare o di cominciare a fare una rivoluzione. La più benevola interpretazione è stata quella dell'estremismo - infantilismo in un senso che non mi pare sia quello di Lenin. Si badi: io non affermo che i sequestratori di Sossi siano davvero marxisti-leninisti, dei rivoluzionari (il termine rivoluzionari, in aggiunta marxisti-leninisti è, o dovrebbe essere, pleonastico); dico semplicemente che il modo come l'azione è stata condotta e gli effetti che ha prodotto dovrebbero essere riconoscibili e riconosciuti, da parte di individui, movimenti e partiti che si propongono la rivoluzione, come rivoluzionari. Né si può obiettare che il perseguire la rivoluzione non implichi necessariamente l'uso di metodi illegali e violenti e tout court della violenza; poiché nemmeno implica che la si respinga e condanni come eresia, provocazione, controrivoluzione (e tanto più quando la violenza è stata impiegata al minimo, al di qua dello scherzo e non al di là). Non riconoscere come rivoluzionaria l'azione delle Brigate Rosse non è dunque un sintomo del mutato rapporto tra le classi proletarie e rivoluzionarie, così come sono oggi rappresentate e si rappresentano, e il potere, e lo Stato?


È possibile parlare ancora di rivoluzione se il gesto rivoluzionario è temuto nell'ambito stesso delle forze che dovrebbero generarlo non solo per la risposta del gesto controrivoluzionario, che potrebbe facilmente e sproporzionatamente arrivare, ma anche perché in sé, intrinsecamente, controrivoluzione? Non c'è dunque da pensare, da riflettere? E mi pare sia, appunto, quel che fa Pasolini. Può sbagliare, può anche contraddirsi: ma sa pensare con quella libertà che pochi oggi riescono ad avere e ad affermare.


Leonardo Sciascia risponde all'articolo di Pasolini 10 giugno 1974. Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia. Sul «Corriere della sera» col titolo Gli italiani non sono più quelli.
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