Pier Paolo Pasolini con Richard Avedon e Oriana Fallaci nello studio del fotografo americano, per lo shooting di Pasolini, New York (1966) © L’Europeo/ArchivioRCS/Duilio Pallottelli/Riproduzione riservata
Pasolini a New York in una giornata buia, fredda, con qualche goccia di pioggia che il vento ti sbatte in faccia. Una giornata di 25 anni fa, sullo sfondo di una città che in un quarto di secolo è profondamente mutata, è diventata quasi irriconoscibile. Adesso le fotografie che scattai quel giorno sono tornate all’improvviso davanti a me, grandi, lucide, ben stampate, come fatte ieri, a riguardarle, non provo emozioni, non trovo ricordi, qualcosa si blocca dentro di me. Occorre tempo, è necessario disporle in fila su un grande tavolo, osservarle, spostarle, mescolarle, raccoglierle e rimetterle giù, così come capita, come per riempire un grande puzzle della memoria.
Partiamo da Times Square dove qualcosa comincia ad affiorare: era proprio lì che c’eravamo dati appuntamento Ed era di sabato, adesso sì che ricordo, e sbucando dalla sotterranea dovevo avere la faccia di uno che dice che palle, oggi me ne sarei stato volentieri a letto tutto il giorno.
Pasolini, New York (1966) © L’Europeo/ArchivioRCS/Duilio Pallottelli/Riproduzione riservata
Lo vidi subito, con un piede appoggiato su un muretto dell’isola pedonale al centro della piazza, con il suo giaccone grigioverde, le Clark, gli occhi sbarrati. Sembrava proprio un americano. Si guardava attorno con aria molto seria, attenta, addirittura circospetta. Lo fotografai d’istinto in quella posizione, prima di avvicinarmi e di salutarlo.
L’ultima volta c’eravamo visti a Roma, prima del mio trasferimento in America, quando un giorno l’avevo seguito e ripreso in una borgata, tra i suoi ragazzi borgatari. Ritrovando Pier Paolo fra i grattacieli provai una sensazione strana. Per quanto ci conoscessimo molto poco era un uomo che con la sola presenza mi comunicava dolcezza e la provai anche lì, in quel preciso istante, in mezzo a Times Square. Non mi rendevo ben conto del perché; a New York in quegli anni c’era poco per la dolcezza e la mia vita era un casino.
A prima vista mi apparve più taciturno, forse più triste del solito. Ci avviammo a piedi lungo la 42ma, senza una meta precisa. Camminava guardingo come un gatto. Mi disse che nel primo pomeriggio aveva un appuntamento con Richard Avedon che doveva fargli un ritratto in studio. Entrammo in un bar puzzolente e semivuoto e ordinammo un caffè. Ci scambiammo poche frasi, ognuno di noi restava immerso nei propri pensieri e io continuavo a pensare che sarei tornato volentieri a casa; allora lo osservai con più attenzione, lo scrutai da vicino e mi resi conto che stavo assistendo a un evento straordinario: Pasolini assorbiva America da tutti i pori. La sua acutissima sensibilità era potesa a registrare ogni rumore, ogni odore, ogni movimento, tutto quanto accadeva attorno a noi. Ed era come una reazione chimica: la goccia Pasolini era caduta nel mare inquieto di New York e reagiva come una sorta di solvente. Attraverso gli sguardi, i gesti, le poche parole di Pier Paolo, la realtà newyorkese mi appariva diversa e trasformata. Tutto questo mi precipitava in una sorta di crisi. Abitavo a New York ormai da molto tempo e accanto a Pasolini mi sembrava quasi di esserci appena arrivato. Non riconoscevo più nulla. E dunque non mi restò che abbandonarmi a lui, ai suoi umori, alle sue giravolte in mezzo ai grattacieli. Lo spiavo in sordina, fotografandolo a debita distanza, lasciandogli la libertà di movimento che richiedeva la sua reazione all’ambiente America. Così lo precedevo di pochi passi, mi lasciavo sorpassare, lo perdevo, lo ritrovavo al semaforo successivo. Si stabilì tra di noi due una specie di complicità e a un certo punto catturai perfino un sorriso divertito nello sguardo attentissimo di Pier Paolo che mi vedeva saltellare e sgusciare dietro ogni angolo.
Richard Avedon aveva lo studio nella 61ma strada fra Madison e Park Avenue. L’appuntamento era per le due del pomeriggio. Era una tappa importante della visita a New York di Pier Paolo, ma io ci andavo malvolentieri. Un oscuro reporter italiano che si stava per introdurre nell’atelier di uno dei santoni mondiali della fotografia. Uffa. Mi sentivo un po’ come un parroco di campagna in udienza dal pontefice. Ovviamente era un’occasione da non perdere.
Nell’atrio della palazzina dove lavorava Avedon c’era un uomo che dormiva per terra avvolto in un cappotto sdrucito. Ci sentì entrare e disse sobbalzando: «Accettate un sorso da un barbone». Ci porse una busta di carta marrone con dentro una bottiglia. Lo guardammo senza rispondere. Lui se la prese un po’. «Maledetti stranieri», gridò, «che vi faccio schifo? You must remember that. I am a so colled Park Avenue bum, sappiate che sono un barbone di Park Avenue». Voleva dire un barbone dei quartieri di lusso e aggiunse: «Sono un derelitto della classe alta, con un certo stile, bevete in nome di Dio». Rifiutammo ancora con gentilezza. La porta si aprì e fummo inghiottiti dall’atmosfera ovattata dello studio del grande fotografo. Il maestro mi puntò addosso uno sguardo sospettoso mentre faceva un sacco di feste a Pasolini. Spiegai chi ero e che cosa avevo intenzioni di fare: avrei voluto riprendere con la mia Leica tutte le fasi della seduta di Pasolini di fronte a uno degli obiettivi mondiali. Dissi proprio così e per un attimo ebbi la sensazione di aver bestemmiato. Avedon, Dick per gli amici, mi scrutò ancora a lungo, poi i suoi occhi si raddolcirono dietro gli occhiali e mi fece segno di entrare con un regale cenno nella mano. Io risposi con un mezzo inchino, ma risollevando la testa non potei fare a meno di pronunciare, con voce impercettibile, un «fottiti Avedon». Nessuno potè udirmi, è ovvio, ma io cominciai a sentirmi a mio agio. La seduta si protrasse per ore e non fu divertente. Avedon è pignolo, precisino, lento, e anche grandissimo, certo. Presi per un braccio Oriana Fallaci che ci aveva raggiunto e la informai che, con la’attrezzatura imponente di Avedon, avrei potuto tranquillamente fare gli stessi ritratti. Da come mi guardò non penso che Oriana fosse d’accordo. Saranno state le sei quando finalmente Avedon disse basta. Si tolse un momento gli occhiali, si stropicciò gli occhi, sorrise e pronunciò un «very well», che ci tranquillizzò tutti. Confesso che mi terrorizzava l’idea di dover rifare tutto daccapo: a volte succede anche con i più grandi, in questo mestiere.
Ci ritrovammo nuovamente in strada, al buio adesso, mentre la città stava cadendo in preda a quella tipica febbre newyorkese che si chiama pre-cocktail party, pre-cena, pre-teatro, pre-cinema. È come se tutti pre-gustassero per un attimo le follie delle prossime ore. In queste pre-ore a New York la confusione è indescrivibile. Pier Paolo si faceva largo tra la calca sulla 57ma e io lo seguivo. Avevo smesso di fotografare e risalimmo così fino alla Settima Avenue. Fummo attratti dalle luci del coffee shop dello Sheraton e decidemmo di mangiare qualcosa. Prima di entrare passammo davanti al barbiere dell’albergo. «Qui dentro, nel ’57, ammazzarono Albert Anastasia». Pasolini non mosse un muscolo, osservò attentamente in negozio, poi si spostò di lato, guardò in alto come per capire da dove potevano essere arrivati i colpi. «Da una macchina», continuai, «da una macchina scesero in due, entrarono dal barbiere e fecero fuoco a bruciapelo».
Pasolini, New York (1966) © L’Europeo/ArchivioRCS/Duilio Pallottelli/Riproduzione riservata
Una volta seduti davanti a un hamburguer fumante tirai di nuovo fuori la Leica e scattai qualche altra foto. Lui era di buon umore, fece anche un paio di smorfie, sorrise, mi disse di calmarmi, di smetterla. Ridemmo tutti e due. Poi uscimmo e Pasolini sparì come per incanto; ebbi la sensazione che si fosse infilato nella sotterranea e tentai di inseguirlo. Niente da fare, scomparso. Se ne andava sempre di notte, a New York, Pier Paolo. Mi dissero in seguito che vagava in solitarie peregrinazioni giù al porto; gironzolava belle stradine malfamate dei bassifondi in cerca di chissà che cosa. Tolsi il rullino della macchina fotografica e tornai sulla strada. Non potevo immaginare in quel momento che non avrei più visto e fotografato Pier Paolo. Non ci saremmo più incontrati. Fermai un taxi e mi feci portare a casa. A quei tempi abitavo a Riverside Drive angolo 83ma. Non era un quartiere di lusso, tutt’altro.
Ho scoperto l’America spiando Pasolini col mirino della Leica. Nome Duilio Pallottelli, professione reporter. Sono sue le immagini che «7» pubblica da pagina 36: una giornata particolare, di 25 anni fa, in compagnia del grande regista e poeta per le strade di New York. «Abitavo lì da tempo», ricorda oggi, «ma insieme a lui vidi quella città con occhi nuovi». Pasolini. Il cielo sopra New York n.14 di «7 - Supplemento del Corriere della Sera» il 7 aprile 1990, pp.29-30
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