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Immagine del redattoreCittà Pasolini

"Sotto il segno del rimpianto". Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia. L'Unità 1991


'Leonardo Sciascia Autoritratto' è un saggio audiovisivo di Paquale Misuraca nel 2001 per Rai Educational. E' stato pubblicato alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro 2001, dura 27 minuti, è composto esclusivamente di materiali audiovisivi tratti dall'Archivio Rai, ed è una delle sue opere audiovisive caratterizzate dalla fusione di un elemento poetico-autobiografico con un elemento saggistico-biografico.



Fraterno e lontano, Pasolini per me.

Di una fraternità senza confidenza,

schermata di pudori e, aedo,

di reciproche insofferenze.


Leonardo Sciascia




"Ho voluto molto bene a Pasolini - disse Sciascia nel 1981, e poi aggiunse un riconoscimento generoso verso la sua voce e appena ironico verso la propria: "Dicevamo quasi le stesse cose, ma io sommessamente. Da quando non c'è lui mi sono accorto, mi accorgo, di parlare più forte". Pasolini era stato il primo recensore del volumetto d'esordio di Sciascia, le "Favole della dittatura. Ma ci fu un legame più forte e recondito fra le vite di Leonardo Sciascia e Pier Paolo Pasolini.


Di una corrispondenza interrotta e ora, a distanza di vent'anni,ripresa, Sciascia, il sopravvissuto fra i due, scrive nella pagina di apertura dell'Affaire Moro (1978). Un affetto pieno di rimpianto fa tremare quella pagina come una febbre. Pasolini è morto da tre anni. L'amicizia cui Sciascia rende l'accorato tributo è, come succede spesso delle lunghe amicizie e anche le più fedeli, diventata col tempo distante e sospesa. A quell'esordio del libro su Moro torneremo fra poco, quando avremo annodato i due capi del nostro filo.


Si sa che Pasolini ebbe un fratello, Guido, di lui minore - era nato nel 1925, e Pier Paolo nel 1922 - che mori a vent'anni, partigiano di una formazione indipendente e aderente al Partito d'Azione, assassinato a Porzus, in Friuli, con altri suoi compagni da partigiani comunisti italiani e sloveni. Molto si è pensato a quella tragedia a proposito dell'adesione comunista di Pier Paolo, come un pellegrinaggio alla rovescia sul luogo del delitto. Pasolini parlò di sé e di sua madre di fronte a quella perdita atroce in una lettera, e nei versi friulani dei tre Cori in morte di Guido: tre anni dopo ne scrisse, indicando fermamente le responsabilità, in un articolo di giornale. Come per ogni altra notizia, si deve leggere Pasolini, una vita di Nico Naldini, Einaudi 1989: i Cori sono ristampati nell'accademia friulana e le sue riviste, appena uscito da Neri Pozza; l'articolo è ripubblicato, sempre a cura di Naldini, in Un paese dì temporali e di primule, Guanda 1993. Nella premessa a quest'ultima raccolta Naldini riferisce delicatamente di un incidente occorso quando Pier Paolo è appena diciannovenne. "Alcuni ragazzi hanno mormorato qualcosa sul conto di Pier Paolo e Guido li ha sentiti. La scazzottata che ne è seguita ha portato Guido in ospedale con una commozione cerebrale". Dunque Guido, appena quindicenne, si è fatto paladino del fratello maggiore. Con lo stesso coraggio impulsivo - entusiasmo, è la parola che con più ammirazione e rimpianto Pier Paolo gli dedicherà - Guido si risolverà poi alla lotta partigiana, staccandosi dalla madre e dal fratello. Ragazzini, Guido aveva la sua cerchia di amici, andava a caccia col Flobert a pallini, costruiva navi e aquiloni, si dava a imprese ardite. Coi propri amici Pier Paolo giocava a calcio, andava in bicicletta, leggeva libri e scriveva. Dopo che Guido fu assassinato, passò qualche mese prima che la madre e Pier Paolo venissero a saperlo. In quell'intervallo, Pier Paolo ebbe le sue prime esperienze d'amore. Benché non abbia a che fare col punto, vorrei dire che la questione della fraternità si mostrerebbe decisiva per la comprensione del rapporto fra Pasolini e gli allora giovani attorno al '68. Rapporto pedagogico e agonistico insieme, nient'affatto da padre, e piuttosto da fratello maggiore. Di sfida, e di desiderio di essere accolto - come nelle sfide di Pasolini al pallone, o alla lotta. L'esempio più chiaro è la famosa poesia su Valle Giulia. Versi brutti, avrebbe detto Pasolini, e pubblicati «proditoriamente» sull'Espresso.


Nell'estate del '68, Pasolini venne, con altri - Zavattini, fra loro, il più simpatico e inerme - in un'assemblea nazionale di militanti studenteschi a Ca' Foscari a Venezia: e fu accolto dal dileggio e buttato fuori a spintoni e insulti. Esattamente come aveva immaginato, certo. (Aveva detto di sé e del propno scandalo, in una lettera del '49: «amore a sputi in faccia»). Ebbe si e no il tempo di dire questo: che la poesia era probabilmente brutta, che era stata probabilmente un errore, e che era stata una provocazione - "In che altro modo mettermi altrimenti in rapporto con loro, se non così?" - una richiesta di amore. Ho un ricordo preciso di

quella piccola gazzarra, del resto più di maniera che entusiasta, e di una sua appendice, dalla quale sarebbe venuta prestala mia amicizia con Pasolini. Benché se ne abbia abbastanza, non sarebbe male che si ricordasse come stettero davvero le cose, tutte le infinite volte che si toma a citare la poesia di Pasolini sui poliziotti. E che non si continuasse a chiudere studenti, poliziotti, e Pasolini in quel cliché facile e apocrifo; altrettanto facile e apocrifo di quello sullo Sciascia dei «professionisti dell'antimafia», formula che, come Sciascia avrebbe ricordato tante volte invano, non era stata sua, bensì di un titolista del Corriere.


Nella distante vicinanza di Pasolini al «movimento» e per un tempo non breve in particolare a Lotta Continua, il richiamo alla vicenda fraterna è trasparente, nella similitudine esplicita con lo spirito degli anni 1944-45, e fino nelle parole - in quella soprattutto dedicata a Guido: entusiasmo. («Mi sembra che la tensione rivoluzionaria reale - la stessa che nei lontani '44 o '45 - cosi pura e necessaria, allora - sia vissuta oggi dalle minoranze di'estrema sinistra» - questo è detto ancora nel 1972. Nei versi de II Pci ai giovani!', quelli di Valle Giulia, tanto citati quanto non letti, in cui gli studenti venivano apostrofati come «figli», «amici», «cari e care», si diceva anche: "Chiedo perdono a quei mille o duemila giovani miei fratelli/ che operano a Trento o a Torino, / a Pavia o a Pisa, a Firenze e un po anche a Roma...Nell'Apologia che accompagnava i versi, Pasolini scriveva poi dei giovani fino alla sua generazione, «esclusi per un trauma: e prendiamo come un trauma tipico quello di Lenin diciannovenne che ha visto il fratello impiccato dalle forze dell'ordine»).


Ci rimproverava, Pasolini, e insieme a suo modo ci invidiava, la riduzione della politica all'azione politica: è un fatto che, questa volta, volesse esserci. Ma è argomento da invidiare.


Del tutto nota è dunque la vicenda di Guido Pasolini benché custodita in Pier Paolo dall"amore pudico e confidente che mi legava a Guido", e rimossa volentieri da altri, come

tutto ciò che apparteneva ai delitti di quegli anni, e in quella regione di fobie e di ferocie. (È di pochi giorni fa del resto una penosa intervista del Corriere, a proposito della malamente rinata questione italo-slovena, con il vecchio responsabile dell'eccidio a Porzus

dei partigiani della «Osoppo»: "Tutti balordi"...). Molto meno nota invece, salvo che nella cerchia stretta dei familiari e degli amici, è sempre restata la perdita tragica di un fratello nella vita di Leonardo Sciascia. Se ne trova un cenno in un'intervista del 1973 di Biagi; e qualche breve e calma frase nella conversazione con Sciascia tenuta da Domenico Porzio, e uscita, neanche rifinita, quando ambedue erano morti, nel 1992 (Fuoco all'anima, Mondadori):


- Eri figlio unico?

- Eravamo in tre. Due maschi e una femmina. Ma mio fratello si è suicidato nel '48.

- Perché, com'è successo?

- Per ragioni di sconforto, forse di solitudine. Era perito minerano. Mio padre lavorava nell'amministrazione della zolfara. Quando mio fratello si diplomò, lo portò con sé... A un certo punto scoppiò uno sciopero alla zolfara, un lungo sciopero... Forse per non lasciare, solo mio padre, è rimasto lì. E in quella zolfara - io ci sono stato: è un paesaggio desolato, brutto, orribile - forse ha avuto un momento di sconforto. Non so. Si è sentito prigioniero. Non siamo riusciti a capirlo.

- Era molto giovane?

- E come no! Aveva venticinque anni. Aveva un carattere molto diverso dal mio, piuttosto allegro. D'altra parte questi tipi vitali hanno dei momenti di sconforto che invece i depressi non hanno...


Tutto qui: salvo una frase, casuale, un paio di capitoli più in la, per dire che lui, Leonardo, non aveva provato la passione per la caccia, suo fratello sì. Non ne so molto di più. Gli amici ricordano questo fratello, Giuseppe detto Pino, bello ed estroverso. Nel cimitero di Racalmuto Leonardo Sciascia è sepolto sotto una lapide su cui è scritto: Ce ne ricorderemo di questa terra. Giuseppe è sepolto un paio di isolati di tombe più in là, sotto un epitaffio latino che era stato dettato da Leonardo. A quel suicidio - "di cui non ho mai compreso le ragioni" - Sciascia aveva dedicato una poesia, «In memoria», nella raccoltina pubblicata in poche copie nel 1952 col titolo: La Sicilia, il suo cuore. Vi si nomina il «maggio sciroccoso» che portò la morte: tornerà, lo scirocco, nelle pagine di Sciascia, e soprattutto in quelle del libro su Moro.


La perdita tragica, e anzi violenta, di un fratello, è per sé un'esperienza accomunante molto forte. Guido Pasolini fu ucciso da fanatici politici. Giuseppe Sciascia si uccise, chissà perché, come si uccidono i giovani, forse per una lotta col padre. Caso mai, un altro parallelo sta nel contesto politico estremo delle due stone: diretto, nel caso di Malga Porzus, indiretto e chissà se anche alla lontana influente, nel caso del giovane Sciascia, rimasto solo col padre in mezzo a uno sciopero di zolfatan, nel rovente '1948. Tutti e due, poi, erano fratelli minori: cosicché sui sopravvissuti, e quasi coetanei, potè pesare oscuramente il senso di una responsabilità mancata.


Una differeza certa, effetto del carattere pubblico di una tragedia - benché velato da un'ombra mista di angoscia e emozione - e del carattere privato e domestico dell'altra, sta nella notorietà che la prima ricevette, e nel riserbo che custodi la seconda. Pasolini può averne saputo. Mi pare di escludere che Sciascia gliene avesse parlato, tanto impensabile una tal confidenza tra due persone cosi dissimili, e in modi opposti gelose della propria vita segreta. Cosi fra i due dovette esserci una disparità. Sciascia conosceva la vicenda di Guido Pasolini, ed è naturale che la confrontasse con la memoria propria. Tenendone la notizia per sé: salvo che, appunto; in'quelle pagine d'apertura dell'Affaire Moro, così insolitamente appassionate e intime.


Ve le ricordate: sono quelle in cui si rievoca la scomparsa delle lucciole, annunciata da Pasolini, e se ne festeggia la timida ricomparsa. Benché un giudizio di Pasolini su Moro - «il meno implicato di tutti» - introduca al soggetto, esso non basta a spiegare una decisione forte come quella di aprire il libro sul sequestro e la morte di Moro con le pagine di ricordo di Pasolini. (Nella foga polemica, Scalfari scrisse sarcasticamente che erano pagine belle, non di Sciascia, bensì di Pasolini). Vi si resuscita, in realtà, un legame antico, e si dichiara un'amicizia ormai costretta al compianto. Sciascia lo dice: «Ed ecco che - pietà e speranza - qui scrivo per Pasolini, come riprendendo dopo più che vent'anni una corrispondenza». Lo dice, anzi, in un modo tale da sottolineare una specie di parallelismo alla rovescia - mi è venuta una formula quasi monotona - delle loro vite, una comunanza fatta di una dissomiglianza estrema. «Per mia parte, sentivo come un muro che ci separasse una parola a lui cara, una parola-chiave della sua vita: la parola "adorabile"». Parola, da Sciascia, pensata e forse scritta per una sola donna e un solo scrittore - Stendhal, «forse è inutile dirlo-. Da Pasolini impiegata per «quelli che inevitabilmente sarebbero stati strumenti della sua morte». Da questa diversità radicale, Sciascia scrive di una lucciola ritrovata, e con lei della «gioia di un tempo ritrovato e di un tempo da trovare, da inventare. Con Pasolini. Per Pasolini».


In questa dedica che mette sotto il segno dell'amico, cosi diverso, il libro più «politico», Sciascia ha insinuato una dichiarazione ulteriore e più intensa. Per due volte, infatti, nel giro di due righe, viene impiegata la parola fraterno. Fraterno e lontano, Pasolini per me. Di una fraternità senza confidenza, schermata di pudori e, aedo, di reciproche insofferenze.


Fraterno, è parola troppo impegnativa per essere usata a cuor leggero Nel caso del messaggio postumo di Leonardo Sciascia a Pier Paolo Pasolini è difficile che sia stata usata per caso. Così, sia pure con tanto ritardo - piuttosto, solo grazie a quel ritardo - Sciascia ha

salutato Pasolini con il richiamo alla comune esperienza fraterna. Così almeno mi sembra di leggere; e mi sembra di trovarvi, in un tempo che ne ha bisogno, un bell'episodio di amicizia.


Adriano Sofri. "Sotto il segno del rimpianto". Pasolini e Sciascia in "L'Unità" martedì 21 giugno 1991, p.11

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