Premio dello spettacolo, Riccione 20 agosto 1966. Pier Paolo Pasolini e Totò per Uccellacci e uccellini. Davide Minghini © Rimini, Biblioteca civica Gambalunga, Archivio fotografico/ Tutti i diritti riservati
Lei conosce Pasolini da molto tempo?
No, è la prima volta che ho questo piacere. Ho letto delle sue opere, ma di persona l'ho conosciuto soltanto in occasione di questo film [Uccellacci e Uccellini]. So che è bravissimo e un intellettuale vero e profondo, non superficiale come molti altri. Non ho visto però gli altri suoi film, anche perché io vado poco al cinema... So che molti colleghi vanno spesso a vedere film...
Da che cosa deriva questo suo atteggiamento?...
No, non è una posa. Ma ho un po' di paura che vedendo una cosa che mi piace, io possa essere portato a imitarla: mentre ho sempre cercato di essere me stesso, magari sbagliando...
Quindi questa non è una sua diffidenza nei confronti del cinema...
No, anzi, per carità...
Sembrerebbe quasi essere, forse, una forma di umiltà eccessiva da parte sua... perché lei ha un nome così affermato...
Ma il pubblico bisogna servirlo! Noi siamo come il padrone di un ristorante, quando entra un cliente... prego, si accomodi, comandi... mentre poi magari il padrone del ristorante a casa sua è un signore, ricchissimo e autonomo... ma io penso che si debba fare così... sbaglierò magari...
[...]
Allora La mandragola e poi questo Uccellacci e uccellini. De La mandragola lei conosceva qualche edizione teatrale, per il ruolo del suo personaggio?...
No, ma ho capito subito che cosa fosse il personaggio, personaggio difficile perché si può scivolare e andare nel volgare, nel pornografico, e allora occorre controllo. Difatti, non so se lei lo ha visto, ho cercato di essere misuratissimo, perché è pericoloso, perché è un frate vero, non un frate falso, e quindi un frate vero può fare certe cose, ma certe altre non può farle... Questo frate poi ha una sua psicologia, è un avido, uno spregiudicato, uno spudorato, è un falso bigotto, è bigotto, non si capisce che cosa è perché ha in sé tanti stati d'animo.
E poi, dopo, Uccellacci e uccellini: perché crede che Pasolini abbia pensato a lei?
Lui intende fare un film comico con un personaggio a sfondo comico, pur impegnato e significativo, per far capire qualche cosa. E ha creduto di scegliere me.
Dicendole che cosa? Come le ha spiegato il personaggio?
Mi ha spiegato poco, mi ha spiegato volta per volta, cioè: «Io preferirei che tu facessi così, così e così». Ma non so cosa ci sia prima e dopo non so cosa viene. Cerco di seguirlo e in una intervista mi ha chiamato... ha detto che sono come uno stradivario... Se io debbo raccontare il film in ordine, da cima a fondo, non lo posso dire. Inoltre, quello che lui mi dice io faccio. Ho una grande fiducia nella sua cultura, nella sua preparazione.
Può farmi l'esempio di una scena che ha girato?
Un esempio come? È una parola. Lei si riferisce ad uno stato d'animo?
Anche... Vogliamo ricordare una delle scene che lei ha girato?
Sì, sì, sto pensando, ma sono tutte così brevi. Per esempio in un episodio io vado da una famiglia poverissima perché debbo riscuotere dei soldi, da una donna che farebbe pena a chiunque, e invece io sono duro, cattivo, la voglio mandar via, voglio sfrattarla. Poi vado da una persona alla quale sono io che debbo dare dei soldi, e sono umile e pietoso come quella donna.
Quindi lei nel secondo momento mette in pratica un po' di quello che ha visto nel primo...
Naturalmente, però rifatto alla mia maniera. Quando la donna parla, nel primo punto, sono duro, freddo, non me ne importa niente che non abbia soldi, che siano dei disgraziati, mentre poi in un secondo tempo quando vado da un proprietario, da un signore al quale debbo dare dei soldi, allora faccio come quella donna, naturalmente alla mia maniera.
Ho visto in proiezione alcune scene, con una fotografia molto bella, in aperta campagna...
Sono state scene faticose, molto faticose; camminare nel fango, nella melma, nelle sabbie mobili. Pasolini cerca a volte i posti più impensati, e del resto ha ragione lui, perché poi i risultati sono molto belli, non sono comuni.
Dove avete girato?
In campagna, vicino a Roma. Ad esempio a Tuscania, ma naturalmente non in paese, ma in mezzo alla campagna, in mezzo ai boschi più impensati; poi all'Alberone, poi dalle parti di Fiumicino... cose terribili. Pensi che in una scena io avevo soltanto un paio di zoccoli, un saio di sacco che lasciava passare vento e freddo con la tessitura così rada. Gli zoccoli sono duri e pesanti, e poi l'altro giorno, con la melma, ogni zoccolo pesava venti chili, impregnato di fango, di creta...
Lei crede che il personaggio di questo film sia simile ad altri che lei ha già ha interpretato?
No no no. È tutto a sé. I miei, qui, sono personaggi astratti e concreti, che hanno dell'umanità ma certe volte non ne hanno.
Perché sono varie figure che lei interpreta...
Sì, tre: io sono un domatore [in un episodio poi tagliato dalla versione definitiva del film], un frate francescano e un poveraccio con un corvo. Tre personaggi con tre stati d'animo differenti l'uno dall'altro, però simili.
Peccato che lei non conosca Accattone, La ricotta, Il Vangelo.
È meglio, penso sia meglio, perché non sapendo niente posso essere più fresco, più sensibile...
Vuole dire alle soluzioni che le sono suggerite?
Eh sì...
Ma lei crede che il fatto di questa sua origine nella Commedia dell'Arte, di avere un animo napoletano così ricco di fantasia, di colore, abbia influito molto nella sua vita di attore?
Certamente sì. È la scuola migliore perché nata dalla vita. È un'esperienza innata, insieme con l'esperienza che poi si acquisisce...
Pasolini dice che lei è un uomo di grande umanità, di grande simpatia umana e di grande carica umana. E questo credo sia giustificato e provato da quelle che sono le sue vere caratteristiche...
Beh, come uomo cerco di essere buono. Lo dico da me, ma è così, anche la vita che faccio lo dice. Non esco, sono casa e lavoro, casa e lavoro. Un po' come un frate in borghese.
Come un impiegato col suo lavoro. Mi sembra che sia il modo più serio per fare la sua professione.
E questo si sa in giro, che io lavoro con serietà.
E anche, e del resto lei ne è una prova, il comico è spesso timido e amaro, in fondo...
Sì, è così. Io cerco di non dirlo perché sembra una posa. Ma è proprio così, si nasce così; come uno nasce comico, ed è tragico e serio, è triste e malinconico insieme.
E le regole del mestiere sono sempre le stesse?
Sì, le regole, i canoni sono sempre gli stessi, c'è poco da fare. Si cambia il costume, si cambiano i fatti, ma i canoni della comicità rimangono sempre quelli, non esiste il comico moderno. Quello che dice di essere un comico moderno è uno che non fa ridere. Ha imparato a dire delle cose, magari ha lo scilinguagnolo, ma non è un vero comico. Il comico è d'istinto e deve avere tutto comico: la faccia, le orecchie, il naso, le mani, tutto, deve essere perfetto. Non è d'accordo?
Perché, al momento in cui si fa ridere, si inietta nel pubblico un tanto di amarezza e di dolore, e anche i suoi personaggi migliori infatti hanno questa componente...
Se io vado in scena e dico: «Mia moglie mi ha fatto le corna ed è scappata di casa, sono tre giorni che non mangio, sono andato sotto il tram e mi sono spezzato una gamba», il pubblico ride.
È vero. E perché ride? Perché lei dice tutto in un certo tono...
Lo dico in un certo tono... Però in fondo all'umanità c'è un briciolo di cattiveria, si gode delle disgrazie degli altri. Per esempio il cornuto fa ridere; il cornuto è un elemento da pochade perché fa ridere, mentre la sua è una disgrazia. Io non rido se vedo una commedia dove c'è un cornuto, ma piuttosto dico: «Ma guarda quel poveraccio, quella schifosa della moglie». Questo lo pensa il comico, perché è nato triste. La massa no, la massa ride. E così uno se cade per strada, fa ridere, se in palcoscenico l'altro gli dà una botta in testa il pubblico ride, e avviene sempre così delle disgrazie. Perciò la comicità nel tempo è sempre la stessa, dipende da come la si presenta, come la si porge.
Lei ha forse un po' il rammarico, ora, di avere avuto eccessiva indulgenza nei confronti di un certo tipo di cinema così dozzinale, in fondo, come quello cui in prevalenza si è dedicato?
Senz'altro, perché avrei potuto fare qualcosa di molto meglio di quello che ho fatto, e invece, vede, per questo ho fallito, mentre credo di avere una vis comica non dico unica, ma rara. Io con la faccia posso esprimere tutto, invece ho trascurato questo e mi sono buttato a fare dei filmetti dozzinali che non mi hanno permesso di diventare internazionale. E ho fatto male. Un po' per pigrizia, un po' per i produttori italiani, i quali vogliono andare a colpo sicuro, perché quando il film incassava poco, cinquecento milioni, loro guadagnavano sempre, perché rientravano bene nei costi. Quindi, siccome i miei film andavano, loro giocavano sul sicuro. Poi un'altra cosa: noi non abbiamo i mezzi che hanno gli americani, i quali fanno i film comici con i mezzi meccanici. Noi no, il nostro cinema comico, siccome è povero, è basato sulle battute, sulle parole, sulle situazioni che non possono avere successo all'estero perché nella traduzione il significato si perde. E siccome il film deve durare un'ora e mezzo e si deve chiacchierare sempre, a un certo momento non si sa più cosa fare. Viceversa mi ricordo i simpaticissimi Stanlio e Ollio, che andavano a finire con i piedi nella pece, l'aeroplano cadeva quando uno era sopra e l'altro sotto, il somaro suonava il pianoforte, insomma tutte cose che in Italia non si fanno, perché da noi è tutto parole, parole, parole, con sceneggiatori da tre soldi i quali credono sia sufficiente buttare giù delle pagine.
Eh sì, mi pare lei abbia individuato bene alcuni dei motivi della mancanza della diffusione all'estero di un successo che in Italia è stato così clamoroso...
Una volta ho interpretato Totò sceicco, c'era un personaggio che si chiamava Omar, e io dicevo: «Omàr, Omàr, vide Omàr quanto è bello», e qui veniva la risata. Una sera sono andato a Nizza al cinematografo dove era proiettato questo film e la battuta, tradotta letteralmente, per forza non faceva più ridere, perché se ne era perduto il senso. È una questa, ma una fra le tante...
Ha mai pensato di lavorare in televisione?
Non mi piace la televisione. No, non ho mai pensato di lavorare in televisione, ho sempre scartato l'idea.
Per quale motivo?
La televisione serve molto ai giovanissimi, che in un momento, in una settimana vengono conosciuti da tutt'Italia. Ora io non so se poi rimangano, o se si esauriscano, si brucino. Ma un attore che è conosciuto da tanti anni, che da anni e anni sta sulla breccia, la sua fama se la deve un po' tutelare facendosi vedere il meno possibile.
Ma non potrebbe fare lei una proposta...
No, non vado d'accordo con la televisione. Poi, come le dicevo, non tutte le ciambelle riescono col buco. Quando si fanno tre, sei, sette, dieci, dodici trasmissioni, finché va bene la cosa è buona, si accontenta il pubblico, ma appena si sgarra di un ette allora subito: «Che barba... chiudi...»... E poi io sono nato libero e dover dire le battute che sono quelle, guai se si dice altro, lo sento come una camicia di forza che non posso sopportare...
Comunque io credo che varrebbe la pena di fare un tentativo in questo senso, e spero che un giorno ci sia un incontro fortunato tra lei e la televisione, per arrivare ancora una volta a un vastissimo pubblico...
Lei lo definisce fortunato, io la ringrazio...
Perché non incide un disco con i suoi sketch, un disco che magari raccolga anche le sue canzoni, le poesie? Gli unici ricordi obiettivi che ci rimangono di Petrolini sono i pochi brani che lui ha inciso...
Che cosa le posso dire? Sono un comico che improvvisa, se dico una battuta la dico così perché mi viene di farlo. Ho fatto ridere per anni dicendo «a prescindere»: ora, che cosa c'è in “a prescindere”? Se lei legge la parola, è una battuta da ridere? No, eppure io ho fatto ridere. Ho fatto ridere dicendo «è ovvio», dicendo «siamo uomini o caporali?», e che cosa significa? Niente, e ho fatto ridere.
Intervista apparsa per la prima volta nel volume Uccellacci e uccellini. Un film di Pier Paolo Pasolini, a cura di Giacomo Gambetti, Garzanti, Milano, 1966, con il titolo Intervista a Totò, uomo di due secoli. Le note fra parentesi quadre sono di Gabriele Gimmelli.
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